Dodici anni. Tanto tempo era trascorso dall’ultima venuta in Italia del
gruppo australiano The Church…
Dodici anni. Tanto tempo era trascorso dall’ultima venuta in Italia del
gruppo australiano The Church (era la primavera del 1990 e all’epoca il
gruppo era impegnato nel tour promozionale dell’album Gold Afternoon
Fix). Dodici anni durante i quali spesso la sorte ha tramato a danno dei Nostri.
Dopo essersi vista proiettare all’improvviso sulla ribalta internazionale,
grazie al successo di Starfish (cinquecentomila copie vendute negli
U.S.A., con in singolo Under the Milky Way nella Top 20), la band ha
assistito, tra defezioni di alcuni dei propri componenti e un sempre
minore sostegno promozionale, alla progressiva perdita di interesse nei
propri confronti da parte della Arista/BMG, major per la quale ha inciso
tra il 1987 e il 1994, fino ad essere da questa definitivamente
abbandonata nel 1994 dopo la pubblicazione dell’avventuroso Sometime
anywhere.
Ritrovatasi senza una casa discografica, la band non ha voluto gettare la
spugna e ha quindi volto la propria attenzione al mondo delle etichette
indipendenti, sfornando per l’australiana Mushroom, nel 1996,
l’interlocutorio e assai sfortunato Magician among the spirits. Di
fatto, all’indomani della sua uscita, l’album non è mai stato
ufficialmente distribuito al di fuori dell’Australia fino alla sua
ristampa un paio d’anni or sono ad opera della inglese Cooking Vinyl,
divenuta nel frattempo nuova stabile dimora dei Church licenziando
l’ottimo Hologram of Baal nel 1998, il curioso cover-album Box of
Birds nel 2000 e l’ultimo, incantevole, After Everything Now This, per
promuovere il quale i Nostri hanno da poco iniziato una tournee mondiale.
Abbiamo avuto la fortuna di vederli suonare lo scorso sabato al Barfly di
Ancona e, così come il nuovo album ci ha confermato che il passare degli
anni non ha fatto venire meno la loro propensione a percorrere nuove
strade rimettendosi continuamente in discussione, il concerto al quale
abbiamo assistito ci ha permesso di constatare anche che cambi di
formazione e tante traversie non hanno avuto ripercussioni sul loro
affiatamento.
Il set (quasi interamente acustico) ha ripercorso a grandi linee tutta la
carriera della band, tralasciando solamente il primi due album, Of Skins
and Hearts e The Blurred Crusade, inframezzato da qualche simpatico
scambio di battute tra il gruppo e gli spettatori delle prime file,
stretti a ridosso del palco.
E’ toccato alla visionaria Radiance dare il via alla serata, con la sua
impenetrabile dose di mistero, seguita dal jingle-jangle di Come down,
che ha subito mandato in delirio il pubblico. Si sono quindi alternati
brani tratti dal nuovo After everything now this e ritorni al passato
più o meno recente. E così, alla disillusione della title-track, con tutti
i suoi rimorsi e la sua amarezza, al tenero struggimento di Song for the
asking, alla forza (nonostante il diverso arrangiamento) di Chromium,
all’ermetica Numbers con i suoi accenti shoegazer e alle atmosfere
notturne e inquiete di Nightfriends, si sono accompagnate Buffalo e
Swan Lake, dolci e fiabesche, l’eterea A new season, le sempre
acclamate Under the Milky Way e Metropolis, un’esuberante Electric
Lash e la mistica e crepuscolare Myrrh.
In coda, tre bis: Magician among the spirits, ipnotico tessuto di
sussurri e rumori spettrali, l’onirica Hotel womb, e un’incredibile
versione di Constant in Opal, la quale, dopo un avvio in tono minore con
chitarra acustica ed armonica a bocca, è letteralmente deflagrata per poi
dilatarsi poderosa ben oltre la sua durata originaria, per un finale ad
effetto accolto dal tripudio di un pubblico numeroso ed entusiasta, giunto
in riva all’Adriatico da ogni dove.
Alessandro Crestani