Inedite retro-conversazioni con Amaury Cambuzat su sfondo partenopeo.
Ulan Bator, formazione transalpina, trio, basso (Olivier Manchion) , batteria (Frank Lantignac, da Ego:Echo in poi sostituito da Matteo Dainese), chitarra voce (Amaury Cambuzat). Nel 1995 arriva il primo episodio ulan bator targato Les Disques du Soleil et de L’acier; un anno dopo esce il mini 2 Degree. La ristampa italiana di questi due lavori, altrimenti poco reperibili, arriva nella raccolta Polaire, selezione arbitraria e poco convincete nella progressione numerica dei brani di questi primi due lavori per l’allora C.P.I., oggi Sonica. Il 1997 vede Vegetale, uscito con copertine differenti per le due etichette, ma identico nel missaggio e nell’ordine. Suonano a lungo in Tour con i Faust. Gli Ulan Bator sono tra i gruppi meglio definibili in giro: infiniti rimandi armonici mai completamente chiusi protratti per tutto il brano e stirati in modo ipnotico, coltre psichedelica di contorsionismi rumoristici, frammentazione ritmica, dilatazioni sospese attraverso spirali di nervosismo tagliente. Ulan bator è un disco molto interessante, certamente nella ristampa italiana ne risulta alquanto distorto dal preciso intento iniziale (per l’assenza di tre brani molto indicativi) , che era quello di misurarsi con una certa musica no wave spigolosamente dolorante, erede soprattutto dei primi Swans. Così le scariche raggelanti di elettricità stop & go di piano mecanik, la no wave distorta di art 18-A,e gli scampoli percussivi di Feu! Fire! Feuer!, cioè gli episodi più sperimentali, scartati in Polaire, conferiscono quel tono dismesso, proto-industriale, che rimane a dir poco confuso. Di 2 Degree, Haupstadt è quasi la sintesi del loro suono: intro con tablas che poi crea dissonanze aritmiche con la batteria, avanzamenti di feedback dissonante che sotterraneamente rumoreggiano incontrollati fino ad una esplosione finale non molto distante da ciò che si può ascoltare nei passaggi migliori dei Gravitar. Sicuramente questo mini possiede delle qualità più mature, maggiore concettualità, toni leggermente ambientali tra un’interludio di scariche anemiche di chitarra e linee scolpite da un basso di fuoco. Si ha l’impressione di una lunga implosione orgasmica: i brani in modo cerebrale affogano in un continuo sfogo ipnotico. Vegetale non fa che riconfermare queste impressioni. Innanzitutto l’apparato vocale opta per un cantato francese, stavolta più scandito e comprensibile rispetto quei rari momenti di canto (in inglese) dei precedenti. I testi tutti di raro astrattismo impressionista (lumiere blanche, embarquemente) conferiscono maggiore crudeltà all’asprezza. Anche in questo capitolo la strutturazione del brano è una scatola cinese, germogliano inattese fascinazioni isolazioniste, durano pochi istanti, poi nuovamente la violenza dello sfacelo. I passaggi esoterici conferiscono impenetrabilità, dolorosamente ombrosi, vagamente industriali, screziano impavidi senza lasciare pace. Ego – Echo, è la sintesi del loro suono: un più meticoloso impegno sui particolari (molto curati nel missaggio di Gira), aperto da dimensioni proteiformi, non si esaurisce mai immediatamente proprio per la differenza quasi totale di ogni brano. E’ soprattutto un disco per stratificazioni. Inevitabilmente risente di tutto il lavoro del produttore, che dona al materiale, altrimenti grezzo e poco smussato, equilibri e compattezza altrimenti irraggiungibili. È inoltre un disco minimalista questo, fatto di figure reiterate continuamente riprodotte e con leggere dissomiglianze: lavoro che è avvertibile in altre produzioni di Gira, che con questo disco, potremmo dire che diventa estemporaneamente quarto membro aggiuntivo.
La storia di questa intervista è irrequieta e dolente. Inizialmente progettata e accettata con previo consenso da Blow Up e poi rifiutata senza preavviso all’ultimo momento, è rimasta finora inedita. Realizzata più di un anno fa, doveva uscire all’indomani di Echo:Ego. Amoury all’epoca viveva a Napoli. L’intervista la facemmo a casa sua, in un giorno piovoso e freddo di Dicembre. Dal suo balcone si tagliava con lo sguardo tutta Napoli, sul tavolo c’erano tazze di caffè e foto del ranch dei Peron dei Faust, sul fuoco dei fornelli un riso indonesiano che cuoceva. Dopo avemmo avuto modo di riparlarne insieme, e nel tempo divenimmo buoni amici. Quel che segue fu il resoconto di quel tempo…
Quali sono le differenze sostanziali del suono degli Ulan Bator dall’origine ad oggi?
Abbiamo iniziato a lavorare nel ’94 e costruito il nostro studio nella periferia di Parigi dentro una caverna di tufo. Il primo disco è molto influenzato dalla scena newyorkese fine anni settanta tipo No Wave, perché io ed Olivier abbiamo ascoltato (troppo) gruppi tipo DNA, Swans, Teenage Jesus, ma anche la scena giapponese, (molto i Boredomes). Volevo fare un disco diretto e violento. 2 degree è stato registrato in una settimana e missato in due giorni. È un disco più intimo. Da lì abbiamo ascoltato maggiormente Kraut tipo Popol Voh, Faust, primi Kraftwerk. È un disco più intimo, ambientale, secondo me un grande disco. Vegetale è nato dalla frustrazione di essere scritto in modo da portare la voce come strumento. Io non volevo essere un gruppo francese che canta in inglese, ma un gruppo con una voce musicale a consonanze un po’ inglesi. Non ero pronto per scrivere in francese prima di Vegetale. Certo non è un album perfetto, è più una prova per l’ultimo disco. Grazie a Vegetale abbiamo girato in Italia, Germania, Svizzera, Danimarca, Svezia, perché era innovativo ascoltare una musica così strana con una voce in francese diversa dai gruppi americani che sono alla fine un po’ tutti uguali.
Quali sono i vantaggi nel passare da un’etichetta più ostica, avanguardistica come Les Disques du Soleil et de l’Arcier ad una maggiormente distribuita, commerciale come la Sonica?
Con Les Disques du Soleil ci siamo trovati abbastanza bene. Per il quarto disco con Olivier avevamo deciso di voler fare una produzione artistica con Micheal Gira. Ci hanno detto: “non abbiamo i soldi per farlo”, però è una bellissima idea e anche una cosa giusta per la carriera degli Ulan Bator. Nello stesso tempo abbiamo incontrato l’agente della Sonica. Lui ci hanno detto “siamo pronti per far uscire un disco e se deve venire bene perché c’è Micheal Gira siamo pronti anche per far venire Micheal Gira”. Alla fine è sempre una storia di soldi. Non una storia di soldi per noi, cioè soldi in tasca, perché alla fine non ne facciamo molti. Era solo trovare un’etichetta capace di pagare questa produzione del nuovo Ego-Echo, che significava un disco in studio abbastanza grosso e pagare biglietti d’aereo ed un cachet per Micheal Gira. La storia ha voluto che loro aiutassero Ulan Bator. Era importante “salire un cielo sopra” e questo era impossibile con una piccola etichetta, la Sonica è stata capace di fare questo.
Gli Ulan Bator hanno un suono abbastanza distinguibile con particolari elementi che lo rendono particolare. Mi chiedevo se questo fosse stato dettato da un processo cerebrale, da un ragionamento sullo stato del suono oggi, o da qualcosa che aveva a che fare con l’istinto, dato che quando suoni sicuramente ti sentirai impedito pensando che c’è già qualcuno prima di te che ha creato questo passaggio. Come te la vivi quest’esperienza paralizzante?
Sì l’istinto c’è. Io penso che un disco dovrebbe essere molto chiaro, mi piacciono cose rumorose, ma io volevo avere una lucidità del suono anche se sono alla fine sporchi questi suoni. Alla fine si deve sentire tutto anche quando vuoi far sentire un suono sporco.
Come Ulan Bator dobbiamo dire che abbiamo una cultura musicale. Abbiamo lavorato io e Olivier in un negozio di dischi, io come distributore. Quando stiamo facendo qualcosa che abbiamo già sentito ci fermiamo. Però sai, ogni grande progetto è un’alchimia tra persone, non è che c’è un genio in questi gruppi, c’è alchimia in un’ambiente causata da un certo periodo e da certe dinamiche.
C’è un nuovo batterista vero? In quest’ultimo lavoro suona in modo effettivamente diverso, consegna maggiore incisività creativa alla musica che non è più avviluppata in un ritmo definito, viene fuori anche una ricerca timbrica differente….
Abbiamo cambiato batterista. Il nuovo si chiama Matteo, è più giovane, ha 23 anni. Ha lavorato con i Meathead, che è un gruppo più metallico, ed oggi suona con gli Here. È sempre interessante, lavorare con persone che non fanno un genere di musica. Per me la cosa più pallosa è lavorare con un musicista che dice d’essere della scena post-rock, perché alla fine viene una merda. Un batterista funky è meglio di uno post-rock, perché non è del mio mondo e dunque mi interessa di più da conoscere.
Perché Ulan Bator? Ti riferisci alla capitale della Mongolia o ad altro?
Certo suona bene come capitale della Mongolia, ma Ulan Bator era anche il nome di un’associazione in Francia, di circa 10 anni fa, un collettivo che organizzava un sacco di cose sul cinema sperimentale, musica improvvisata. Ulan Bator era una po’ una leggenda, proprio perché relegata, misconosciuta.
Parliamo un po’ dei Sister Iodine e dei Bastard?
Allora, questi “bastardi” oggi si sono sciolti. Per me è l’unico gruppo francese che rispetto. Eric Aldea aveva 18 anni quando ha firmato con dei tipi a Torino La Bande A Bono. I Bastard sono i primi a fare qualcosa davvero d’indipendente. I Sister Iodine erano un gruppo di Parigi con un tipo di Lyon. Facevano musica improvvisata molto interessante, molto influenzata dalla scena di New York, ma nel modo migliore. Nel primo disco c’erano due chitarre e una batteria. Gli Starfuckers mi piacciono perché mi ricordano un po’ loro, però Sister Iodine nel primo disco sono due tipi di 19 anni che creano un suono ancora più strano che Starfuckers, bellissimo. Il secondo disco Pause è più influenzato per il peggio da Brise glace, troppo direi.
E per la scena legata ai Prohibition ti senti vicino?
No assolutamente no. Prohibition sono dei clowns di altri gruppi americani, noi abbiamo sempre voluto fare la nostra musica. Ci sono gruppi a Parigi che hanno imitato Fugazi o Teenage Jesus. Anche se sono persone simpatiche si deve essere un po’ selettivi, non è una musica che aggiunge qualcosa in più.
Negli ultimi mesi ho notato che si stanno cominciando a sentire dei segni di stanchezza di quella che era stata definita scena post-rock: parte di questa scena è già in una fase di storicizzazione, già si sentono segni di scomparsa. Lo stesso vostro ultimo disco, mi sembra attraversare una dimensione di ulteriorità, fuori da questo termine e anche oltre questo, è un disco che sicuramente tiene conto di queste contaminazioni in atto. Come la vedi la cosa?
Post-rock, se prendi queste due parole significano dopo il rock. Certo è la cosa che stiamo facendo: l’attitudine non è quella dei Rolling Stones, non vogliamo ragazzine sotto il pacco (scoppiamo a ridere, ndi). Mi dispiace vedere Ulan Bator come gruppo post-rock, è fastidioso, anche se i giornalisti hanno bisogno di mettere etichette, ma è una cosa peggiorativa. Mi piace tanto Gainsborg e Laddio Bolocko nonostante facciano cose differenti. Quando metti un nome ad una scena è finita. Quando abbiamo chiamato il punk punk era già finito. Non si deve assolutamente capire quello che succede, quando la gente se ne accorge devi cambiare , perché vuole dire che non va bene. Ulan Bator era all’inizio più industriale che post rock, era anche kraut – rock.
Sì, ho notato in certi passaggi certi legami anche con l’isolazionismo?
Mi è sempre piaciuta anche la musica ambient, o Loren Mazzacane Connors. Anche se quello che voglio fare è fuori da questo contesto.
Mi parli dell’esperienza con i Faust
Il primo Faust è un capolavoro. Poi è uscito Rien, ho pensato “è splendido”. Ho chiamato Olivier ed ho detto è la prima volta che si sente la lingua francese in brani del genere e devo parlare un po’ con loro. Chiamiamo Jean-Hervé Peron , che è una delle persone che ha creato i Faust nei settanta, e mi ha detto voglio fare qualcosa con voi, dovete mandarmi i dischi e vediamo. Li abbiamo mandati e ci ha detto: “i miei tre gruppi preferiti sono: Incredible String Man, Stereolab e Ulan Bator”. Abbiamo fatto due giorni di prova e siamo andati in un festival francese che si chiama Music Volant ed abbiamo fatto questo concerto fuori di testa, un’esperienza bellissima. Con i Faust non prepariamo i brani. Prima del concerto ci scriviamo un foglio dove mettiamo degli ambienti che abbiamo in testa tipo il mare, un terremoto. E dobbiamo seguire questa pagina, facendo qualcosa di organico che la gente può ascoltare. È stato splendido, nonostante mi si sia rotta la bocca cadendo dal palco.
Come è stato lavorare con Micheal Gira per questo disco?
Esperienza bellissima, persona molto interessante per diversi aspetti. Abbiamo imparato molto. Se vuoi crescere con la tua musica devi essere aperto e lavorare con altre persone, devi lavorare con qualcuno che fa uscire il meglio di quello che sei in grado di fare. I primi giorni è stato un inferno perché lui è molto duro, ma io già ero prevenuto per questo inconveniente perché era un rumore che girava già prima che cominciasse questa storia. Ero deciso a lavorare con lui. Lui ha voluto assolutamente che la cosa venisse bene. Soundtrack for the blind è bellissimo, ha sempre saputo come far suonare le chitarre e la voce, cosa per me molto importante.
Parlami del nuovo disco, sei contento?
Ho lavorato insieme a Olivier un’anno. Dura 65 minuti ed è completo, abbiamo scartato molto materiale perché siamo stati molto esigenti. Io suono un sacco di pianoforte, strumenti molto particolari, ci sono molte sorprese. Abbiamo realizzato tutti i nostri sogni che avevamo dentro ed è un disco molto completo. Per me è il migliore insieme a 2 degree. C’è Micheal che ci canta sopra, Jean-Harvé (dei Faust) ci ha suonato la tromba. Era facile chiamare anche altri amici tipo Liebezeit dei Can, ma il progetto non era questo. Era farlo con le persone giuste e sentirlo nostro, non di fare un meeting per altri. Abbiamo usato suoni molto puliti, chiari. Anche se fai musica più industriale, tipo Merzbow devi comunque renderla pulita. Nel missaggio siamo concentrati. La cosa importante è che lo stesso disco ti porti ad esperienze diverse. La musica quando è drogata è buona. Quando sto missando un brano mi dico sempre se mi fa l’effetto di essere sotto eroina, un effetto allucinato, significa che è buono. Ci sarà un giro di Ulan Bator in Italia a Febbraio. Il disco dovrebbe uscire per la Young God in America e dunque anche lì ci sarà in tour. Stavolta abbiamo un’ottima distribuzione. Adesso Olivier sta lavorando con un gruppo che si chiama Osaka Bondage a Parigi, io sto lavorando con Paolo dei Silken Barb, un progetto più acustico che sarà usato come sfondo per un film sperimentale.
In che condizione scrivi i testi?
È un’esperienza violenta. La persona che ciò dentro mi indica, quello che ho dentro lo metto sulla carta ed è violento tutto questo processo. Con Ulan Bator facciamo prima la musica, inizio a scrivere quando mi viene qualcosa. Io sono molto esigente, non voglio cantare delle cazzate, voglio cantare cose mie, poetiche, oniriche, però semplici, non voglio fare un lavoro intellettuale, ma una cosa spontanea. La stessa cosa per la musica: non è che voglio complicare le cose, siamo complicati già ed a volte sembra inaccessibile la nostra musica, ma io voglio comunque qualcosa di accessibile.
Hai idea del fatto che questi pezzi sull’ascoltatore comunicano un’esperienza allucinata, dolorosa. È questo quello che vi siete proposti di comunicare con la vostra musica?
Penso comunque che c’è una cosa pesantissima nella nostra musica. Magari quello che abbiamo vissuto nella nostra vita, nella vita che facciamo, siamo molto complicati. Mi piacerebbe fare cose più dolci e zuccherate, ma non ci riusciamo perché alla fine c’è sempre qualcosa di angosciato, di pesante fra le nostre cose.
Quali sono le differenze nel fare musica in Francia e in Italia, dato che la tua nuova residenza ti sta informando di tutta una serie di realtà?
In Italia ci sono un sacco di gruppi interessanti: il più grosso per me sono i Massimo Volume, il fatto che cantino in Italiano per me è molto importante, poi hanno un chitarrista bravissimo. Poi ci sono gruppi tipo A short Apnea. I Larsen, Daniele Brusaschetto (anche se un po’ dark), gli Starfuckers, mi piacciono molto perché parlano in Italiano: è come quando c’è la tua faccia su una foto, indipendentemente dal fatto che non ti piaci, alla fine è la tua faccia, per la musica è lo stesso; rispetto i gruppi che cantano in Italiano, poi è solo una storia di lavoro, devi lavorare per far emergere la tua lingua bene. In Francia è lo stesso problema, perché siamo abituati ad ascoltare la musica Americana ed Inglese, sarebbe interessante un gruppo Noise che parla in dialetto
Vai d’accordo con tuo cugino Francois Cambuzat?
Sì tantissimo, voglio contraccambiare una puntualizzazione dato che lui in un’intervista per Blow up ha detto che io non sarei interessato alla politica (risate generali, ndi). Io dico semplicemente che la politica mi interessa perché vivo nella società: pago l’affitto, compro le sigarette, vado al supermercato, vivo in questa società, non è che ne sono fuori. Per me fare musica e cantare testi onirici, è una cosa che mi piace tanto, indipendetemente dal fatto che non siano politicizzati, perché anche questo fare è politica. Esser liberi, fare quello che voglio fare, è anche un modo di dire che io sono libero, che non me ne frega niente chi è il presidente della Francia o un altro, dato che le cose non cambieranno mai. Mio cugino è fissato con la politica, ma è una cosa sua che io rispetto ampiamente. Poi Francois Cambuzat et les Enfant Rouges ci hanno sempre sostenuti, sono stati i primi ad organizzarci concerti, fanno una musica diversa da noi ma ugualmente rispettabile.
Salvatore Borrelli