Monitoraggio sull’ipercitazionismo rock. Come diventare spot di sé stessi infischiandosene dei telecomandi.
I Dandy Warhols dal vivo sono come una Diet Coke. E’ altrettanto ‘truly american’, è addirittura più nociva dell’originale, ricorda in qualche modo il sapore della sua sorellina rosso fiammante senza però imprimere sulle vostre papille un proprio marchio in fatto di gusto. Preceduti da un’esibizione al limite dell’irritante dell’ex Sperahead Michael Franti e da un certosino sound check che ha travalicato di gran lunga quel limite (senza neache riuscire a garantire poi allo show l’effetto deisderato), i quattro ragazzotti (ragazzacci? Dio che noia…) di Portland si presentano sul palco col piglio di chi ha qualcosa da sbrigare (l’uscita di scena finale di Courtney Taylor borsello in spalla avrà un certo sapore snob, purtroppo divino). Abiti casual per tutti fatta eccezione per Zia Mc Cabe in vestito bianco candidamente innocente, lo show sembra iniziare quasi per caso tra timidi feedback chitarristici conditi da sviolinata verbale di Courtney sul piacere di essere in Italia e invito ai presenti a recuperare sui pochi scambi di effusioni che gli è capitato di vedere sinora. Riusciranno mai gli americani ad oltrepassare la soglia della superficiale curiosità nei confronti delle altre culture? Bah… Non c’è tempo. Il vortice psichedelico di Be-in già inonda i presenti e gli ‘assenti’ (i concerti gratuiti sono visibilmente fatti anche di questi) mostrando fin dall’inizio la vera cifra della musica del ‘quartetto + trombettista’ statunitense: puro appeal rock psichedelicamente retrò. Le carte migliori vengono giocate quasi subito con Not if You Were the Last Junkie on Earth e Bohemian Like You purtroppo penalizzate da qualche malfunzionamento dei pedali della chitarra di Peter e da un pubblico ancora un po’ freddo per scatenarsi fisicamente (quello arriverà poi più avanti nei pochi brani tirati verso la fine dell’esibizione). Il resto delle incursioni altalenanti tra “Come Down Heavy” e “Thirteen Tales from Urban Bohemia” è puro godimento estetico più che prettamente sonoro: la coppia Zia/Courtney è uno spettacolo visivo per ambo i sessi nel loro incarnare, quasi loro malgrado, una stroboscopia di stilemi rock pluridecennale. Per lei si va dalle recentissime Solex e Olivia Block quando è alle prese con le manopole a qualsiasi icona sixties in chiave Summer of Love quando beve, fuma sul palco ed esibisce di spalle il suo fluttuante vestito in un sensuale ancheggiamento danzante, tamburello alla mano. Per lui si va da tutto a tutto: street rock style quando percuote le corde del suo strumento, ammiccamenti glamour quando canta, un pizzico (ma proprio uno) di ironia nei pochissimi scambi verbali col pubblico. Peter e Brent sono animali da palco più anonimi, riassumibili in classica fisicità ed energia a buon mercato. Inaspettatamente, almeno per chi scrive, il gruppo non concede bis lasciando fuori dalla scaletta un singolo d’eccezione come Get Off, forse dimentico del fatto che una chitarra acustica elettrificata non ha problemi di pedali e per questo magari avrebbe potuto funzionare meglio degli altri. Un po’ un peccato, ma come diceva un tipo: “il piacere perfetto è quello che lascia comunque insoddisfatti”. Per lo spettacolo estetico gli schermi ai lati del palco fanno poi il resto: tremolanti filmati in bianco e nero che seguono le sinusoidi sonore divenendo ora ieraticamente fissi nelle parti rallentate e nelle evoluzioni popedeliche, ora ricalcando il fotoshock dei frammenti di energia chitarristica di brani come Horse Pills e Boys Better. Davvero ben fatti e davvero appropriati gli screenings ci rendono in tempo reale la vera anima di ciò che dovremmo vedere sul palco: una rock band già incastonata nei futuri ascolti ‘da culto’, preda di collezionisti senza scrupoli e deprimenti revivalisti ad oltranza. D’altronde, come ha dichiarato lo stesso Taylor in una delle sue recenti interviste, la sua paura principale consiste nel rischio sempre presente di perdere la sua cosiddetta ‘channeling ability’, la capacità di fungere da catalizzatore e filtro di tutti i messaggi con cui la pop culture continua piacevolmente a sballottarci, sollazzarci, seducentemente inebetirci.
Ce lo dicono nelle interviste. Lo fanno dal vivo.
….che siano in definitiva ‘anima e core’?
Prendere o lasciare.
Nel dubbio, prendo.
Mauro Carassai