Di musica, poesia, dolcezza e altre cose ineffabili.
Il Violino e la Selce: un festival di musica contemporanea arrivato alla sua settima edzione, decentrata quest’anno nelle città di Jesi, Fano e Ancona.
Il Violino e la Selce: un correlativo oggettivo ineguagliabile per metaforizzare le figure di Laurie Anderson e Lou Reed (gli artisti che hanno virtualmente aperto l’intero festival se si esclude l’iniziale esibizione di rito di Franco Battiato) per come sono apparse nelle circa due ore di performance tenuta in Piazza Plebiscito ad Ancona lo scorso 12 luglio.
Il Violino per Laurie, viso d’angelo (nonostante la sua non più giovane età) e autentica incantatrice che, con le corde del suo violino elettronicamente trattato, ha irradiato, trasfigurato ed evocato per tutti gli oltre 120 minuti della performance, aloni di estasi mistica intorno alla sfilata delle sue parole e a quelle del suo compagno d’avventure.
La Selce ovviamente per Lou, primitivo nell’aspetto (T-shirt bianca e jeans sdruciti) come nella strumentazione (ad accompagnarlo c’è solo una chitarrra elettrica dal suono ipercompresso e qualche effetto) ed ormai già eternamente sedimentato nella storia musicale di tutti i tempi. Il volto che Reed offre all’audience, imprescrutabile e chiuso in sé stesso come da copione, è come una radiografia dell’intera storia del rock attraverso tutte le fasi della sua pluridecennale carriera.
Indifferente e schivo, Reed sembra monologare con sé stesso tanto quanto Laurie ricerca con l’audience un contatto diretto e colloquiale (recita in italiano diversi ‘brani’ rendendo superfluo lo schermo sui cui scorrone le impeccabili traduzioni).
La serata è stata un evento davvero unico per tutti i presenti per diverse ragioni: innanzitutto il risultato dell’interazione tra Lou e Laurie non è (ancora) reperibile su album. Inoltre ciò che è stato possibile ascoltare non era ovviamente né il concerto dell’uno, né il concerto dell’altra. E non è stata neanche una semplice collaborazione a tutto tondo: credo sia stato piuttosto (musicalmente parlando) l’incontro, l’unico possibile, su una piattaforma comune tra ‘certa’ Laurie Anderson e ‘certo’ Lou Reed. Se la Anderson è stata la prima artista d’avanguardia a fare dello sperimentalismo di matrice colta un accessibile veicolo pop, Reed è stato uno dei pochi a trascinare l’energia primeva del rock verso un conflitto stridente con l’alta qualità e il piglio letterario delle sue lyrics, una letterarietà tanto intensa da deformare ogni singola folk song in uno squarcio d’esistenza consapevolmente raffigurato.
Partendo da tali premesse Lou e Laurie hanno presentato, senza alcun bisogno di colti panegirici, un evento che potrebbe essere appunto perfettamente classificato come sperimentale, ma che di sperimentale in definitiva non ha avuto poi molto in quanto a immediatezza espressiva. Forse se lo percepiamo come avanguardia è per un divario tutto sommato culturale: magari perché, a pensarci bene, in America non è affatto difficile trovare forme d’espressione artistica sui generis. Semmai ciò che è davvero difficile, è trovare la ‘tradizione’, almeno per come la intendiamo al di qua dell’atlantico.
Lou e Laurie hanno meravigliosamente esemplificato tutto ciò di fronte a un pubblico attento e partecipe riproponendo brani dell’uno e dell’altra in versioni recitate con sottofondi musicali di stordente efficacia. Preceduti da due separati assoli strumentali in apertura, i due hanno lasciato sfilare brani tratti da “Ecstasy”, “The Bells” fino a “Transformer” per Reed e brani come Dark Angel, The Wildbeests, The Smile dal repertorio della Anderson amalgamandoli perfettamente tramite il ‘trattamento Lou & Laurie’ pensato per l’occasione. Ridotti a pura suggestione verbale i brani penetrano nelle ossa e nella mente; si avverte una piacevole sensazione di straniamento che avvolge collettivamente tutti i presenti e che strappa in più di un’occasione applausi anticipati. Particolarmente emozionante poi il bis finale con Lou che concede una breve digressione tramite lo splendido cantato di Who Am I?, Laurie che ci regala un’intensa versione di White Lily e per finire entrambi che si cimentano in un classico Reediano come Perfect Day opportunamente drenato verbalmente e sommerso di rumori e feedback. Resta la cantilena di Laurie in mente: “You just keep me hangin on… you just keep me hanging on…” quando, alla fine del concerto, i due si avvicinano all’estremità del palco per gli inchini (Laurie) e per una gestualità truly american appena accennata (Lou) tra gli scroscianti applausi della piazza gremita.
Due sole ore: un indimenticabile atto d’amore in parole e suoni da due dei più grandi artisti americani di tutti i tempi.
Mauro Carassai
Contributo fotografico di Emanuele Fasciani.