Coh ‘Mask Of Birth’

Il vivace disegno dell’albero, che compare sulla copertina di “Mask Of Birth”, credo rappresenti un significato più vasto e profondo e non un semplice rimando alle terre nordiche da cui proviene Ivan Pavlov (per gli amici: Coh). Mi diverte immagginare che stia ad indicare una sorta di mappa cronologica, dove ogni evento che accade è sempre legato sia con il passato che con il futuro. Forse tutto ciò sembra assurdo, ma nell’incidere le mie orecchie in questa musica (primo lavoro dell’artista in mio possesso), l’impressione che le 11 traccie partorite dalla mano di Coh siano concatenate fra di loro da una strana forma di cordone ombellicale, diventa una certezza inafferrabile. Messe da parte le varie divagazioni, cominciamo col dire che Ivan Pavlov, di origine russa, vive da sempre in Svezia ‘collabborando con’ ed ‘ispirandosi a’ diversi artisti, che come lui fanno parte della scena ‘chirurgic reation’. I nomi da tirare in ballo sono molteplici, si va dai finnici Pan Sonic rifinitori per antonomasia del suono nella sua veste più nuda e innocente, ai freddi paesaggi elettronici di Biosphere e Vladislav Delay, fino alle eiaculazioni futuristiche nate dai Deus Ex Machina dell’elettronica: i Kraftewerk (che a mio modo di vedere costituiscono l’imput dominante nel sistema celebrale di Coh). Il disco in questione era uscito originariamente (solo in lp) per un’altra etichetta, pioniera nel campo ‘digitale’, la “Raster Noton”, per poi subito andare fuori catalogo. Quindi quale migliore occasione se non questa offertaci dall’austriaca “Mego” di conoscere meglio da vicino una delle figure ‘minori’ dell’oculato ambiente glitch? L’apparente ostruzionismo che confonde le idee con l’inizio di Supernature, i suoni architettati in maniera parallela nella semi-rumorista Hurt Later, il percussionismo sintetico che vaga senza meta nela poli-cromatica Terra Beyond, la ‘voluta’ (vedi il titolo) impossibilità di espodere liberamente che si manifesta in Utopia-Me tod, sono permeate da quel sottile sapore acido così caratteristico dell’elettronica Berlinese degl’ultimi anni. Para-improvvisazioni, ritmi sussurati, frequenze accarezzate, improvvise espolsioni elettrostatiche, fluttuano geometricamente l’una nell’altra in Boog. In Spaces Between sembra chiudere il percorso ponendoci un’imperiosa domanda: data l’infinità di operazioni nel genere, è il caso d’addentrarsi ‘per l’ennessima volta’ nell’ascolto di simili sonorità? Non so… dico solo che avolte… un po di ‘sintetismo elettronico’ mi rigenera con soddisfacenti risultati per la psiche e l’umore. Spero lo stesso capiti anche a qualcuno di voi.

Voto: 7

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