(Bloodstar 2002)
L’australiana Cat Hope è una tra le figure più versatili e poliedriche dell’intero panorama musicale sperimentale (e non). Un’artista in grado di fluttuare con estrema agilità dalle oscure sonorità industrial-oriented del progetto Lux Mammoth alle crepuscolari dolcezze del pop decadente dei Gata Negra. La sua abilità nel cimentarsi con le più svariate forme di composizione (dai lavori musicali per la danza, il cinema, il teatro, alla ‘tradizionale’ rock song, alle lunghe ed evocative composizioni ambientali) e la sua flessibilità in campo artistico (oltre ad aver diretto cortometraggi e opere teatrali è ora impegnata nel progetto audio-visuale CavITY sulle nuove vie di integrazione tra musica ed immagine) sono davvero disarmanti. Nonostante sia diplomata in flauto e abbia collaborato con artisti ed ensemble tra i più diversi (dall’Opera Bellini di Catania alla percussionista d’avanguardia Ikue Mori proseguendo per una lista che include: Jon Rose, Hugo Race, Stellarc, Irene Moon, Mick Harvey…), il vero principio motore di tutta la sua vena artistica è riconducibile ad un dispositivo dotato di quattro corde, cui è di solito attribuito un ruolo di secondo piano e che viene comunemente indicato col termine: basso elettrico.
L’amore viscerale di Cat per le potenzialità di questo strumento si dispiega ora a tutto campo in questo suo magnifico lavoro solista intitolato ‘Fetish’. Se ognuno ha una sana perversione feticista per qualcosa, Cat ha la sua. Nella sua musica il basso diventa qualcosa di più che un oggetto da venerare. Diventa un oggetto misterioso di cui svelare i reconditi segreti e a cui attribuire di volta in volta una diversa funzione lungo il percorso delle ventuno tracce sonore: ora è pura ed irriconoscibile fonte di suoni (a loro volta soggetti a deformazione digital-analogica), ora è oggetto ‘suonato’ nei modi meno convenzionali, ora presenza aliena e inquietante. Il disco in questione è un’ode incondizionata alle basse frequenze, ai magici e magnetici soundscapes in qualche modo demiurgicamente ‘estratti’ dallo strumento ora in forma di note dilatate, ora in forma di ossessivi clangori. Tutta l’opera è poi in rigoroso real-time dato che parte delle tracce del disco sono registrate dal vivo e le altre realizzate in studio in presa diretta e senza le stratificazioni aggiuntive tipiche della laptop generation. Per quanto riguarda i riferimenti è sicuramente più interessante citare quelli a livello di attitudine artistica che quelli riguardanti le sonorità vere e proprie (tutte legate comunque ad un ambient mesmerica e isolazionista): Cat si situa in una ipotetica linea trasversale che unisce lo sperimentalismo ‘colto’ di Annette Krebs (già promo del mese su queste pagine) alla giocosità esplorativa di Bill Horist. Se questi ultimi sono i ricognitori degli opposti emisferi del pianeta chitarra, non mi resta che essere d’accordo con Time Off Magazine confermandovi che Cat Hope… è indubbiamente la regina del basso. Irrinunciabile il piacere di addentrarsi nel suo regno.
Voto: 10
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