New Order ‘Back to Mine’

(DMC/Audioglobe 2002)

Viene solo da chiedersi se la machiavellica massima ‘il fine giustifica il mezzo’ sia ancora applicabile dopo quanto ascoltato in questo ennesimo capitolo della serie Back to Mine messo a punto questa volta dalla storica band mancuniana di Bernard Sumner.
Ben venga l’apertura mentale, ben venga l’abbattimento di ogni barriera tra i generi, ben venga la volontà di sorprendere e spiazzare ogni possibile interlocutore contraddicendo tutto e tutti, perfino sé stessi… ma qui credo che si sia un po’ persa la consapevolezza che quel che una simile operazione inevitabilmente comporta… a volte può risultare davvero sconcertante…
Mi spiego…. il senso della collana Back to Mine è quello di illustrare l’immaginario musicale retrostante l’effettiva produzione di alcune delle maggiori bands e artisti internazionali (figurano tra i confezionatori dei precedenti dieci capitoli nomi come quelli di Danny Tenaglia, Faithless, Orbital, Everything but the Girl) chiamandoli a stilare la loro personale ‘compilation di tutti i tempi’ ed è un’iniziativa senza dubbio meritevole e intellettualmente accattivante. Ma poi il dischetto che ne risulta… bisogna, ahimè, ascoltarlo… altri usi non credo ce ne siano… tra quelli legati ai suoni che ne fuoriescono intendo…
Ed eccoci allora, nel caso dei New Order, di fronte a circa 74 minuti di strattonate acustiche tra passato e presente, di sfiancanti salti in iperspazi sonori davvero inconciliabili, di inversioni di rotta che non consentono all’ascoltatore di calarsi comodamente ‘dentro’ il viaggio costituito dalle quattordici tappe presenti. Il risultato è una panoramica davvero sorprendente e interessante, ma che appiattisce e deforma in un unico blob sonico asettico autentici pezzi di storia (Venus in Furs dei Velvet Underground, Big Eyed Beans from Venus di Captain Beefheart), piacevolissimi brani pop contemporanei (l’ottima M62 Song dei Doves e il discutibile remix degli Orb della splendida Higher than the Sun dei Primal Scream) ed electrodance e trip hop di vecchia e nuova generazione (Missy Elliot, Mantronix, Joey Beltram). Ogni singolo brano (estrapolato dal contesto) ha una sua ragion d’essere: come non lasciarsi sedurre dalla staticità struggente di In Every Dream Home a Heartache dei Roxy Music e per opposte ragioni come non impazzire per il groove trascinante di I Feel Love di Donna Summer post-trattamento estetico di Patrick Cowley? Senza contare che brani come Mushroom dei Can o Was Dog a Doughnut? di Cat Stevens sono comunque in grado di rapirvi e intrappolarvi per il tempo della loro durata nei loro rispettivi diversissimi mondi.
Credo si possa tranquillamente affermare che il disco funziona perfettamente se interpretato come trascrizione acustica da microspia mentale da inserire nel vostro dossier ‘New Order’ o come album di istantanee musicali in grado di donare isolati momenti di dolce abbandono. Funziona molto meno come amalgama di atmosfere che dovrebbero scivolare le une nelle altre o come flusso ‘pensato’ con un occhio di riguardo per l’ascoltatore.
A voi decidere la caratteristica indispensabile o quella che dovrebbe comunque sempre prevalere in una buona compilation.

Voto: 7

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