ESP Story

Breve panoramica su una delle label più famose del jazz indipendente

 

 

 

 

Correva l’anno 1964 quando, deluso dalla scarsa (o meglio voluta) disattenzione operata dalle major del  settore, l’avvocato newyorkese Bernard Stollman decise di provvedere autonomamente a promuovere la scena sempre più crescente del Free Jazz, fondando la “Esp DisK”.  Superate le difficoltà iniziali, dovute principalmente a questioni burocratiche inerenti ai diritti e ad altre storie, Stollman riuscì a decollare nel vero senso della parola, arrivando a far incidere quasi tutti gli artisti in voga di quei giorni. Inoltre va ricordato che la “Esp” non si fermò esclusivamente al mondo della musica nera  ma lanciò anche diversi gruppetti del sotterraneo  circuito underground tra cui gli sgangherati Gods, Holy Modal Rounders ecc. Il motto proclamato dal piccolo uomo di legge era: gli artisti sono totalmente liberi [disincantati è meglio nda] di registrate tutto quello che desiderano sui dischi Esp. Tutto ciò, riallacciandoci al discorso precedente, portò una forte innovazione in campo espressivo e, considerato che solo la “Impulse” aveva provato a non chiudere gli occhi (producendo i lavori più trasgressivi di Coltrane come “Ascension”, “Kulu Se Mama”, ecc., Archie Sheep ed un live di Albert Ayler  al “Greenwich Village” di New York), non è poco per niente.

Iniziare una discussione su tutti i lavori usciti per la “Esp” è a dir poco un ‘esperienza titanica, dato che si tratta in totale di 125 opere che portano le firme di Sun Ra, Ornette Coleman, Bob James, Frank Writh e tanti altri. Si può però cominciare con i primi, ristampati dall’italiana “Abraxas” (ogni tanto il nostro paese…) sia in confezioni ultra deluxe che nella forma originaria di lp (360 grammi puri).

L’iniziazione spetta al percussionista Milford Graves   con il seminale: “M.G. Percussion Ensemble” registrato in compagnia di Sunny Morgan nel giugno del 65. Graves è stato il primo ad intuire la possibilità di disegnare una musica per niente basata su di un corso regolare. Inoltre, se le mie informazioni sono esatte, credo che sia stato il primo musicista ad incidere un disco fatto esclusivamente di sole percussioni in cui sdradica con convinzione i ruoli tradizionali della musica jazz. La collaborazione più famosa è quella con il quartetto di Giuseppi Logan (se ne parla più avanti)e non va dimenticato che è anche l’insegnante ‘spirituale’ di  Susie Ibarra).Purtroppo Graves, come tanti suoi colleghi, nel corso di quest’anni è stato messo ‘maliziosamente’ da parte e solo grazie alla “Tzadik” di John Zorn ha potuto ricominciare a registrare con l’uscita di due nuovi lavori solisti.

“Percussion Ensemble” e costituito da 5 tracce stranamente (chi sa?) intitolate Nothing che sprigionano ininterrottamente le proprie radici africane (per niente fastidiose o percettibili ‘per pochi’)attraverso le quali i due riescono addirittura a creare dei momenti tipicamente ancestrali.

Il passo successivo spetta al ‘rivalutato’ Sunny Murray, anch’egli batterista e ‘scordata’ figura del jazz indipendente. Prima di procedere, è il caso di lanciare un’appello perché qualcuno si decida a ristampare lo storico “Sunny Time’s Now”( uscito originariamente per l’islamica “Jihad” e ristampato brevemente in edizione giapponese dalla “Diw”).  Il disco in questione, intitolato solo con il nome di “Sunny”, non propone certo niente di nuovo rispetto ai dischi di Ayler (suo noto collaboratore): ossia un free sghembo e scanzonato pregno di rimandi folcloristici che gravitano principalmente su reminescenze Dixieland targate New Orleans.

Ad accompagnarlo sono il bassista Alan Silva, i due sassofonisti Jack Graham e Byard Lancaster e il trombettista Jacques Coursil. I momenti, ripeto, si discostano di poco per intensità l’uno dall’altro e, nel fare un sorteggio, gli 11 minuti di proto-deliro iconoclasta di Hilariously  e il continuo intercalare tra melodia e dissonanza che fluttua in Angels & Devils sono quelli a mio modo più sofisticatamente congeniati di tutto il lavoro.  Diciamo che Murray rappresenta un po’ il Bakunin dei neri e la sua anarchia traspare limpidamente quando, più che suonare, percuote con una facilità innata il rullante facendoci assaporare una lieve elasticità dei movimenti. Andando avanti, la nostra strada si incrocia con il sassofonista Marion Brown di sicuro più conosciuto e affermato all’interno del mainstream jazz rispetto agli altri artisti. Le sue note, nonostante ereditino gli insegnamenti sia di Coltrane che di Sheep e vengano supportate da un discreto quartetto (Norris Jones al basso, Stan Cowell al piano e Rashied Alì alla batteria), in questo “Why Not?” (The Marion Brown Quartet Volume 2) non raggiungono grossi ‘entusiasmi’ facendoci assaporare un disco imbevuto di sonorità melodiche ‘spirituals’ presenti in qualsiasi disco della Coltrane (Alice).  Nell’iniziale La Sorella aleggiano piccole scaramuccie ‘popolari’ (Italia per prima) e prove solistiche che nascondono l’utopico tentativo d’imitare “A love Supreme”.

Fortunato stimola lievemente di più i nostri sensi grazie alle disarticolazioni pianistiche di Cowell, anche se particolari dissonanze e frastuoni sembrano intravedersi davanti (dentro) a noi solo con l’ascolto di Why Not?. Evapora quindi il consiglio dell’acquisto a scatola chiusa  tranne per la splendida copertina che immortala Brown con dietro una stampa policromatica ‘tanto pop art’.

Mi sembrava doveroso chiudere questo breve articolo con un vero e proprio capolavoro: “The Giuseppi Logan Quartet”. Logan? Chi l’ha Visto? Che fine ha fatto? Tutto ciò che ruota intorno la figura di Logan è un mistero (la sua vita, dove sia ora ecc.) Alcune dicerie lo vogliono addirittura barbone dopo il breve periodo di fama negli anni 60. Altre lo dicono, come Mingus, essersi cimentato per sopravvivere coi lavori più disparati (tassista, lavapiatti, ladro). Oltre al sax tenore e alto Logan  si destreggia tra clarinetto, flauto e oboe pakistano. Accompagnato da Graves (tabla e batteria), Don Pullen (piano) e Eddie Gomez (basso), il disco è un’affascinante concentrato di musica etnica pakistana (o comunque orientaleggiante) e jazz aspramente liberatorio.

Ad egli sono stati rivolti svariati omaggi da parte di numerose band underground contemporanee tra cui quello più significativo è rappresentato dai Sun City Girls che, nella serie intitolata “Carnival Folklore Resurrection”, sferrano una sfilza di riferimenti concettuali ad egli.  

Tabla Suite sgangherata e disinvolta, Dance Of Satan orientale come il Coleman di “Dancing Your Head”, Dialogue frenetica come una metropoli di notte, Taneous percussiva come il pianismo di Taylor e a-melodica come un sogno di Varese, Bleecker Partita lancinante come…. Ed ancora e ancora e……

Buona Meditazione!

 

Sergio Eletto