(Grob/Fringes 2002)
Sicuro, è che una crescita maggiore dovuta ad un ampiamento della distribuzione ed al riconoscimento avuto da quasi tutta la stampa musicale, ha fatto si che l’etichetta impro “Grob” sia arrivata, oggigiorno, a produrre il lavoro di cui andiamo a parlare. L’ultima uscita vede due stelle, se così si può dire dell’avanguardia bianca.
Elliot Sharp è uno dei più riconosciuti esponenti della downtown newyorkese (per chiarirci il giro artistico che fa capo a Zorn &C.) e Bobby Previte, gentlemen del jazz seguace della scuola ritmica di Jack DeJohnette. La conversazione che si inscena in “The Prisoner Dilemma” se si riducesse a pochi brani riuscirebbe ad essere più convincente di quello che poi risulta in un ascolto complessivo. Sharp sciama destrezza nell’addentrarsi, come un rettile freddo ed impassibile, nell’utilizzo molteplice degli strumenti, anche, se relegando alla chitarra il timone della nave. L’ancora non si immerge ne in revisioni cinematografiche ne in scoraggianti digressioni blues. Non fraintendiamoci, Sharp ha ben stretto il carattere di burattinaio situazionista che trova confortevole sfoggiare il proprio umore in spettrali scenari. Previte, sarebbe esagerato piazzarlo come figura da semplice sfondo, ma non credo sia il suo somministrare ritmo e movimento ad ogni singolo dialogo causa di minor appiattimento, dato che anche privo di tale supporto Sharp in solitaria sarebbe riuscito a riempire una tavolozza con colori omogenei.
Volendo tornare sulla concretezza, non ben plasmata in ogni incavo, a convincerci è solo l’ascesa del disco, per l’esattezza le prime tre tracce.
Sciami chitarristici e percussioni rarefatte che scorrono assidue e costanti auspicando lidi sciamanici…, psichedelici (Illusion Web), o nel caso, sempre una chitarra indossa l’abito di un synth che si sporca le mani in parossismi funky (mi sembra nel divenire spunti un clarinetto, un oboe….fiati), o quando le corde s’intersecano l’una con l’altra in scale testarde e velocissime come un uragano.
Nel resto beh…se non fosse per la visione solare ottemperata in paesi asiatici con i sette minuti di Leep Year sfiata l’intelletto e a noi, che stiamo in ascolto, cala di netto l’umore. Quello che non dovrebbe capitare in un disco, a maggior ragione se poi la struttura è totalmente improvvisata, momentanea, un soffio che non si ripete mai alla stessa maniera.
Feedback insopportabili, sfoggio di capacità tecniche si, invidiabili, ma che di emotivo al proprio interno contengono ben poco, anzi, se desideriamo mantenerci la coscienza pulita, diciamo serenamente nulla.
Questa recensione finisce constatando il triste dato di fatto che l’improvvisazione (levate le realtà ‘realmente’ indipendenti), non gode di buona saluta. Giorno dopo giorno lo stupore, la voglia di spiazzare e colpire con il meccanismo su cui si fonde, la non determinazione degli eventi, diminuisce o si riduce a semplice ascolto ‘quotidiano’.
Che noia!
Peccato, un vero peccato.
Voto: 5
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