(Big Beef 2002)
L’Ohio è uno di quegli stati pressoché anonimi. Al massimo può far venire in mente la capitale raccolta di racconti di Sherwood Anderson (che dire di tutti coloro che parlano di ‘provincia americana’ senza neanche averlo mai sfogliato… ?… forse nulla) o a un pubblico meno letterario il gruppo delle Breeders di Kim Deal.
Ai più attenti invece non sarà certo sfuggito l’inclassificabile fermento sonoro che si agita sotto la superficie dello stato del Mid-West. Butto là una manciata di esperienze che meriterebbero ampiamente di tenere udienza sedendo nelle aule di tribunale della carta stampata insieme ad altre realtà, a volte, francamente illegittime: dall’impianto fondamental rock dei Ten O’ Clock Scholar, all’indie-pop punk dei Let’s Crash a bands davvero valide come Enon, Morella’s Forest e Swearing at Motorists.
Tra queste, i Lab Partners sono una tra le più affascinanti realtà (e non soltanto promesse!) indie-rock di Dayton soprattutto per la loro rara capacità di coniugare vecchio e nuovo. Risultato perfetto dei lucenti frantumi tra lo schianto delle sonorità di Jellyfish Kiss e Jacob’s Mouse contro la muraglia shoegazing dei primi 90, “Daystar” (uscito per la Big Beef Records) offre oltre settanta minuti di perlustrazione di ogni anfratto psiche-wave. I lab Partners non creano soltanto perle folk dream pop (la bellissima Gold in apertura o la magnifica successiva Those Things), reinterpretano anche, come in Almost There (viene in mente una rilettura in chiave rock dei Primal Scream di Higher Than the Sun con suadenze iniziali e controllato fragore finale) oppure si divertono a suggerire come in Still Shine On (immaginate i Jesus and Mary Chain riconfezionati come effervescente gazzosa dalle stellari bollicine),. Quasi sempre divagano spensieratamente tra mareggiate wah wah e immobilità sognante come in After Hours (Moose o Ride rallentati) a Furthest from Love cullante nenia infinita e crepuscolare che si spegne nei gorgheggiare multistrato di tastiera e della chitarra del guitar/vocalist Mike Smith della traccia successiva. Interessante e stupendo a questo proposito l’uso della tastiera di Amy Smith in sostituzione di un assente basso elettrico di cui non si sente affatto la mancanza dato il peregrinante chitarrismo lisergico ora in sottofondo, ora noisedelicamente in primo piano (stile Telescopes primo periodo) che ricorre in quasi tutti i brani.
Molti dei brani più dilatati ricordano l’intensità espressiva di una Kendra Smith o dei Mazzy Star più cosmici (Ocean Floor) senza comunque intaccare minimamente il pregio della versatilità. Tratto quest’ultimo che è valso loro performances live al fianco di gruppi anche distanti tra loro quali: Black Rebel Motorcycle Club, Joan of Arc, Us Maple o gli già citati Morella’s Forest.
Una band che nel suo piccolo è capace di essere già senza tempo.
Bello. Bello. Bello. Bello.
Voto: 8
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