(S’agita Recordings/Fringes 2003)
Kalm…kalm…ka….Kar-Anofele-Logoplasm-Maath…
Kalm non è solo un ensemble -en passant-, fusione di una collaborazione tra artisti, gruppi, situazioni convergenti attorno la sperimentazione capitolina. Neanche un progetto cui affibbiare, per chiudere in fretta la recensione, l’apparato uditivo di sound ambient dagli interni scuri, neri… fobici. Si potrebbe scavare molto addietro, scoprendo legami con teorie animiste, con primordi esperimenti di frattura accademica, nel tentativo di accostare la realtà circostante (suoni naturali, quotidiani, primordiali) con gli elementi alla base della musica: armonia, melodia, ritmo…
E qui, potremmo sforzare i nostri sensi verso Pierre Shaeffer, la staticità mai ferma, ingannatrice d’orecchie della splendida Eliane Radigue come, avvicinandoci a periodi più recenti, gli esperimenti collettivi (introversi…affascinanti) dei Morphogenesis o le textures reali raccolte, in giro per il globo, da Peter Cusak e Max Eastley, per diversi anni, compresse nel resoconto di “Day For Night”.
Partendo da un idea comune i quattro artefici di questo progetto fanno in modo (lo si nota da un ascolto ripetuto) di non far risaltare un espressione individuale, ma ne fuoriesce un entourage unico in cui ogni percorso è collegato con un altro in maniera spontanea e non equivoca.
Il primo segmento reca la collaborazione, già avvenuta in passato, tra Anofele e Maath, dove veniamo trasportati da field recordings che emettono su di noi echi metallici, voci captate in sottofondo (che sembrano cantare, lanciare odi…lamentarsi), gocciolii; tutto avviene in un coacervo tensivo che sale ad una velocità microscopica, catartica, rilassata, per sfociare in sketch di frequenze radiofoniche che simboleggiano, a mio parere, quella sottile vena industriale del passato di questi generatori sonori. Sulla stessa scia sembra balenarsi il tragitto solitario di Maath, non scostandosi da un immaginario imbastito da fabbriche dimesse, cut up ambientali, ricordando il Robert Rich in simbiosi con Lustmord. L’elemento ripetitivo spetta compierlo ai Kar, i quali in due frazioni separate marchiano un velo tra l’interesse per il suono scarno (il primo) e la pacatezza, frutto di una compressione fra soundscapes concreti e clangori etnici (sia Carcasi che Scerna sono a loro agio alle prese con questi suoni) primitivi, affinati con semplicità. Ai Logoplasm il compito di creare un tessuto granulare, ove l’ascesa fa risaltare, a differenza degli altri, il ritmo. I cigolli, la rarefazione del suono viaggia sospesa su drones obliqui e taglienti. Non prendetelo come un angoscia collettiva, un getto d’incubi reconditi, il solito disco dal trascorso industriale, perché potreste non gustarvi l’aspetto meditativo e tonificante racchiusogli dentro.
Voto: 8
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