(Tzadik 2003)
Dalla collana New Japan ci arriva fra le mani l’opera di questo ensemble
dedito alla rilettura pop e scanzonata di spunti ed azioni del buon vecchio Partch,
il cimento è di quelli da far tremare le gambe a chiunque, ma in fondo l’idea
è intrigante come poche, riflettendo di come l’operato di Partch, seppur
rivisto ed emulsionato di certe sue peculiarità, sia stato fonte di profonda
influenza per artisti come Tom Waits. Quindi un tantino sconcertati, ma
non privi di un pruriginoso interesse, ci addentriamo nel cd in questione. L’inizio
è sicuramente coinvolgente, con il suo stranito passo che aumenta impercettibilmente
di velocità ad ogni ripetizione, ci stiamo muovendo in uno strano territorio
che lascia intravedere sghembe strutture che vien voglia di associare ai Devo
della svolta pop o a certe evoluzioni degne di Snakefinger, ma abbiamo appena
iniziato.
Da rimarcare che tutti i brani sono marchiati dal suono di un particolare organo
monotonico che detta cadenze e melodie senza scampo, comunque tornando a noi nel
secondo brano entrano le voci nel più puro ye-ye style nipponico,
e continuiamo a sorridere benevoli in quanto le mutazioni ormonali del corpo in
questione sembrano inglobare sia derive degne della peggiore canzonetta orientale,
come delle preziose costruzioni degli After Dinner, lo digeriamo ma il
contenuto calorico è un pelino troppo elevato per i nostri poveri e denutriti
organismi.
Quando una suadente chitarra ci lancia in un ballo guancia a guancia in qualche
sperduta pista della periferia di Tokyo iniziamo a dubitare di diverse cose e
nell’ordine: 1) della nostra sanità mentale, 2) di cosa abbiamo fatto per
meritarci tutto questo; 3) ???????.
Atmosfere tzigane insinuanti ci traghettano poi in universi orrorifici dove il
dolore non sembra conoscer tregua ed infatti nel mirabolante settimo brano veniamo,
armi e bagagli, scaraventati in una spiaggia del Marocco ricoperta di carta igienica,
mentre lo spettro dei Ne Zhdali si agita sullo sfondo; ma non è
finita.
Al varco ci attende Suicide on a Fine Day ed è veramente troppo.
Su di una base anni ottanta degna dei Matt Bianco più paraculi spuntano
delle vocine femminile memori forse della lezione delle Miranda Sex Garden
o delle Lush e poi come se non bastasse anche un fraseggio di chitarra
acustica vagamente latina che sfocia in un crescendo emotivo stile Bananarama.
In un’interminabile tour del dolore si scorgono ancora movenze esotiche degne
dello Sceicco Bianco e profonda ricerca del particolare che non scontenterà
i più esagitati sostenitori dei Berlin o della Anna Oxa della
svolta new age.
Aggiungo soltanto che da Suicide on a Fine Day alla fine mancano ancora
nove brani; cazzi vostri.
Voto: 2
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