Hans Fjellestad ’33’

(Accretions 2003)

Se in questo periodo, in diverse uscite, era la chitarra a fare le veci del paziente con il musicista inscenare il fantomatico ruolo di chirurgo intento a trasformare la fonte originaria dello strumento in astratti paesaggi sonori ascoltando “33”, a firma del giovane Hans Fjellestad, si torna ad uno dei primi strumenti, se ci è consentito fare un azzardo, ad aver subito trattamenti e manipolazioni nella storia della musica contemporanea: il pianoforte.
Fatta la premessa, le dovute presentazioni ci narrano di una figura poliedrica ed estroversa, anche nell’attività di filmaker, nel cui curriculum sono annotati studi con George Lewis, performance in compagnia di vecchie tigri dell’avanguardia, quali Muhal Richard Abrams, Peter Kowald e nuovi astri come Le Quan Ninh.
Fjellesteid, al contrario, nel registrare predilige un abito individualista, slacciando i sentimenti verso piano, fisarmonica…polistrumentismo. La rotazione intorno al globo (con una predilezione per i paesaggi sciamanici del Messico) forma su di esso un appeal in cui deserti, temperature calde, sole luccicante scorrono costantemente negli affreschi che crea.
La globalizzazione dei suoni si unisce ad una seriosa preparazione accademica fondata su strutture, propriamente, jazzistiche. Dunque il disco è un calderone di stili disparati, della volte anche contraddittori l’uno dall’altro.
Per attestarci sul piano tecnico, Hans attacca il piano dentro e fuori avvalendosi di strumentazioni elettroniche (computer, synth, megafono), semplici oggetti (bottiglie, pietre, legni), nomadismo (registrazioni ambientali raccolte in giro) …fisicità (pugni, strattoni, gemiti).
Quando, al contrario, il suono non viene trattato ci si addentra in territori informali devoti a certo percussionismo Tayloriano, oppure cedendo con la stanchezza a melodie jazzy dal facile ascolto (Smoke Shant quasi una jam session tra Jarrett e Milton).
Si incrociano spazi per divertissement ironici dallo spessore sghembo e stralunato (Kylling non sfigurerebbe come base ai rauchi blues di Waits in “Swordfishtrombones”).
Al momento dell’ascolto ho sfilato dai miei dischi le introversioni verso l’oscurità di Ross Bolletter e le virate nella non-coscienza di Steve Peters. Solo che in questo viaggio i deserti, le montagne che costeggiano il tragitto, le stelle che adornano un ipotetico cielo blu scuro non brillano di lucentezza piena come allora, rimanendo a tratti fioche. Da ricercare nell’ostinato tentativo di abbracciare più continenti, tradizioni diverse.
Ricordiamoci di segnare i momenti migliori che si scorgono nei paesaggi cosmici di Sult (per computer e accordion) a momenti di soffice improvvisazione per solo piano (Pica) fino alle inaspettate calate verso un ambient organico di Radigueiana fattura (Phone Damage).

Voto: 7

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