Contributo di alcuni componenti di IXEM
Di seguito troverete alcune riflessioni su SUPERFICI SONORE 2003 redatte da Fabio Selvafiorita, punck, moax, (etre), logoplasm e Andrea Marutti. Non sono cronache o aride descrizioni dettagliate di performance ma riflessioni estetiche, sensazioni o semplici opinioni di musicisti e non che hanno condiviso tre giorni di passione, sudore ed emozioni fortissime.
Fabio Selvafiorita
Già il termine superfici sonore rinvia ad una dimensione spaziale. Le superfici in questione hanno abitato lo spazio con corpi, oggetti, computer, immagini e soprattutto onde acustiche. Le superfici si sono organizzate nello spazio avvolgendo il tempo come se fosse un teatro. Superfici sonore è stato un festival di teatro sonoro; gli eventi acustici sono stati un tutt’ uno con la scenografia che li produceva: era la scenografia degli oggetti che diventano sonori. Gli attori con le mani immerse nella scenografia dei loro strumenti e gli spettatori ad un passo da essi. Il gesto assoluto, le performance anche. Così è apparsa a me l’evidenza dell’artigianato e del gesto musicale, spesso celato, falsificato o costretto, anche dal teatro musicale più recente e dal rituale decadente del concerto.
Imbrigliato com’ero nel perenne collasso del linguaggio musicale contemporaneo, mi è apparsa subito la gran varietà dei modi di organizzare il suono.
Di come suona il suono e delle possibilità di farlo risuonare.
Ho riconosciuto, nell’insieme dei tre giorni fiorentini, la complessità di quelle esperienze che non si riconoscono nel vincolo della scrittura e che accompagnano l’intuizione musicale verso un’organizzazione dinamica delle relazioni acustiche. Un divenire di possibilità. Affascinante.
A volte insidioso; mi appare infatti mentre scrivo, l’imbarazzante evidenza di narrare di quelle musiche per cui sto scrivendo queste parole e non saprei descrivere oltre. Per queste musiche, e per quelle che desidero conoscere meglio, credo e spero che una coscienza critica riesca a mettere alcuni performer/musicisti in guardia dai pretestuosi e affascinanti ambienti del caos. Ma spesso dimentico che il desiderio appena espresso riguarda più la mia poetica che la loro estetica. E allora tutto mi appare un pò più chiaro. Così per (etre) il cui set riassumeva “drammaticamente” tutte le possibilità della technè sperimentale, computer e interfacce, un salterio preparato violentato da un archetto, mic a contatto su latte e oggetti vari. Così per i Logoplasm la cui fissità ieratica delle immagini sonore si apre al caos con un’inaudita poesia. Così per Valerio Tricoli, ispiratore della deriva teatrale di questo mio intervento insieme a Claudio Rocchetti, Renato Rinaldi, Andrea Belfi. Di Valerio Tricoli, soprattutto, e del contrasto violento delle sue performance con il rigore e la pulizia formale mostrato nella sua unica uscita su cd.
Mi fermo qui.
Penso che le improvvisazioni cui ho assistito confermino l’urgenza come ho detto, teatrale, della performance live, rispetto sia alla passività della classica ricezione acusmatica, sia alle impettite performance elettroniche cameristico/accademiche.
Spero ora, subito, nel cyberspazio o in quello reale, in un dibattito sulla natura del fare musica oggi e sulle reali necessità della sperimentazione e, soprattutto, spero non si prescinda dall’evoluzione del pensiero critico che sottende il nostro artigianato sonoro e dall’incontro-interazione con diversi ambiti culturali. Non dimentichiamo che superfici sonore è organizzato all’interno di una facoltà di architettura e da studenti di architettura: non al d.a.m.s. od ospiti di un conservatorio. Peter Eisenman o Markos Novak sono solo alcuni degli architetti che hanno saputo riconsiderare criticamente l’approccio alla progettazione attraverso lo strumento informatico, avviando un coinvolgente dibattito circa il ruolo della tecnologia nell’architettura.
Non si parla più di teatro ma del modo di costruirlo.
punck
Adoro Viaggiare, mi e’ sempre piaciuto più di ogni altra cosa.
I viaggi più belli sono sempre stati quelli non programmati e durante i quali non avevi la minima idea di dove il fato ti avrebbe condotto il giorno successivo.
Ixem e’ un viaggio non programmato, un treno sul quale sono salito senza pensarci troppo, istintivamente, passava e ci sono salito.
Probabilmente era il treno che aspettavo da sempre senza saperlo.
L’inizio del viaggio mi ha ricordato gli euforici momenti delle gite scolastiche, entusiasmo, allegria e spensieratezza, presto però interrotte dai primi problemi dovuti ad incomprensioni, a differenze di vedute e probabilmente all’impersonale mezzo scelto per intraprendere quest’ avventura.
Alcuni hanno legittimamente scelto di scendere alla prima stazione per non fare più ritorno, altri sono invece risaliti a bordo pronti a rimettersi in gioco e sopratutto a cercare di comprendere meglio il carattere dei compagni di viaggio.
Strada facendo il tempo ha contribuito a farmi capire quale fossero le volontà, le esigenze ed i pregi dei viaggiatori che mi accompagnavano.
Poco per volta ho cominciato a sentirli sempre più vicini e ascoltandoli ho deciso che avrei voluto continuare a viaggiare con loro.
La diversità spesso spaventa, a me piace, la trovo stimolante.
Trovo stimolante sapere che persone molto diverse fra loro hanno una destinazione comune da raggiungere e diverse idee su come raggiungerla.
Sono convinto che durante il percorso, attraverso queste diversità, e ciò di buono che esiste in ognuna di queste, raggiungere la destinazione diventerà più agevole e che la soddisfazione di avercela fatta sarà maggiore.
Insieme, non senza difficoltà, siamo giunti alla prima fermata vera e propria: Firenze SUPERFICI SONORE.
Non penso che sia importante descrivere in questa sede come siano andate le cose a Firenze dal punto di vista artistico, preferisco l’aspetto umano.
Ho incontrato persone e questo tipo di esperienza mi è piaciuta.
Ho visto la volontà di superare le iniziali diffidenze reciproche, ho visto la volontà di stare insieme nonostante le diversità, ho visto il caos andarsi lentamente ad organizzare.
Non tutto è filato alla perfezione, non tutti si sono trovati bene con tutti, ma questo deve essere considerato normale e comunque fisiologico quando tanti cuori e cervelli si incontrano.
Quando i rapporti si incrinano, a volte, accade che ci si lasci bruscamente ed in malo modo, ma questa è la vita.
La vita è un viaggio e se non si è adatti a compierlo insieme è meglio che ognuno lo intraprenda scegliendo la sua personale strada e la direzione preferita.Dopo Firenze alcuni compagni di viaggio hanno deciso di staccarsi dal gruppo, altri sono stati invitati a farlo.
Anche questo non deve stupire e non ci si deve vergognare di ciò.
Il treno e’ ripartito, il viaggio e ripreso, io sono sempre qui, ancora più convinto che questo sia il treno che aspettavo e sul quale mi trovo insieme a compagni con i quali voglio viaggiare.
Avremo ancora discussioni, sorgeranno ancora incomprensioni, ma il gruppo si è compattato, gli obbiettivi un pò più chiari, e sono certo che sapremo superare tutti insieme i futuri ostacoli.
Il viaggio continua, e la cosa che più mi affascina e’ che non ho la minima idea di quale sarà la destinazione finale.
E se non ci fosse nessuna destinazione finale?
Si continuerà a viaggiare.
(etre)
Cos’è una superficie?
La superficie è l’orlo che accarezza l’oggetto, ma non l’oggetto stesso. La superficie è il fuori: l’oggetto fuoriuscito da sé, trasposto e composto dall’invisibilità che chiamiamo limite. La superficie è il limite: la delimitazione della cosa, ma non meno importante della sua essenza. Dato che laddove c’è oggetto esiste qualcosa che vibra in superficie. La vibrazione è strofinamento, evaporazione, sonorità. Quando un corpo vibrante dialoga con il proprio esterno e ne trasmette i segni vuol dire che una Superficie Sonora si è messa a vibrare. E quando uno spazio vibra, come in un’istallazione continua, c’è qualcosa di cui indagare e chiedere allo spazio. Uno spazio emette un suono. Ogni spazio è suono. Ma non evento. Ciò che fa di una Superficie Sonora l’acting della sua importanza è la catena di eventi ad essa legata. La disposizione degli eventi appartiene al concretismo sonoro. Il concretismo è ciò di cui siam fatti. La realtà è un concretismo fatto di corpi risonanti. Uno e più eventi organizzano la chiarezza che noi chiamiamo scena. Una scena è un dispositivo d’interazione tra spazio vibrante ed eventualità temporale. Ma una scena è anche la rappresentatività dell’esistente nel circolo continuo dell’accadere. Quando un insieme di musicisti si dispongono a circolo attorno ad un ambiente riproducendo l’evento come interazione continua dell’accadere significa che circoscrivono la totalità dell’evento nel circolo continuo ma finito di una Superficie Sonora. Perché musicisti sono oggetti a loro stessi e lo spazio che li accoglie è la corda del loro respiro.
Cos’è un collettivo?
La Superficie Sonora fiorentina più tangibile di un collettivo come Ixem che diventa evento è l’A-Team. Solo l’A-Team ha chiaramente rappresentato la scena, l’oggetto, la disposizione, la casualità entro cui sbocciano i fatti del concreto. Se prendete Ixem così com’è, singolarmente intendo, è un insieme di realtà differenziali talvolta non conciliabili o conciliate. Composte da una deriva che anarchicamente chiamiamo eterogeneità. Ma la cui differenza se tenuta separata dal collettivo non esprime che se stessa e non nomina altro se non se stessa. Un gruppo trova un punto di forza solo nei dispositivi che mette in atto per un sodalizio. Ixem sta tentando in divenire la formazione di un processo tuttora indefinito ma sulla soglia di una volontà costruttiva e di condivisione di gruppo a più ristretta osservanza. I concerti pomeridiani se li analizziamo come eventi hanno completamente “bucato la scena”. Soprattutto quando il suono veniva affidato allo spazio e questo fungeva da vincolo di trasmissione. Un concretismo sottile e lucido venato di scariche elettriche quello di Claudio Rocchetti, uno concettualissimo lavoro di distruzione scenica quello di Valerio Tricoli. La spirale di fuoco dei Logoplasm trattenuta dalla tensione poetica implosiva/esplosiva. I drones vegetativi e penetranti di Fhievel, quelli legati al concretismo pastello di Luca Sigurtà. La fragilità tutta spaziale di Andrea Belfi e l’ondulante catena di microsuoni di Rcf. Il climax sulla superficie di Domenico Sciajno, la caosmosi pastosa e free glitch di (etre), le bordate elettriche di Kilroy, la plasticità gravitazionale e zen di Elio Martusciello, la ieraticità fluxus di Rernato Rinaldi, l’onda spazialisergica di Andrea Marutti. Il kevindrummismo passato per Connors/Sugimoto di Giuseppe Ielasi. Tutti questi atteggiamenti, fortemente ambigui se legati al discorso unità, trasposti nella scena dell’evento, diventano catena discorsiva e producono soggettivazione. Le espressioni legate ad Ixem sono tuttavia silenti rispetto a quanto vi sarà in giogo. Se Ixem deciderà di affrontare con maggiore desiderio unitario il proprio lavoro sull’elettro-elettroacustica probabilmente perderà in singolarità elettiva dei componenti ma ne acquisterà in validità collettiva. Se continuerà di sviluppare un percorso slegato dall’A-Team, quindi più individualistico e meno aperto allo spazio performativo e sperimentale finirà con l’essere una delle tante realtà che agitano la scena musicale ma di cui non vi è fondamentale necessità di organizzare l’evento poiché l’evento è solo il lavoro legato alla superficie che diventa spazio organizzativo e corpo risonante.
Logoplasm
NELLE AULE COGITO PLANCE DI ASTRONAVI
Siedono di fronte, come al ristorante. Una tenue luce rossa, che traballa all’inizio, li illumina tutto il tempo, e forse aiuta adesso, nel filtro della memoria, a rendermeli ancora più irreali.
C’è molto silenzio, gente sudata col fiato sospeso e le orecchie tese come aquile, molto silenzio e tutti stretti attorno, curiosi nell’incipit, stupiti e rapiti a seguire.
Poi sguardi intesi e complici, un gesto lento che drona un cimbale e l’uomo che muove l’arco ed attende, una pausa ed attende ancora, un suono sottile, lontano – poi un mormorio dalle mani dell’altro, timido e sereno, un altro fantasma inalato.
Al mattino, siamo tutti più zitti, la pelle ancora non un fiume, ed il pranzo arriva poco dopo la colazione, barattiamo caffè con acqua, cadaverina con assenza di caseina, e riusciamo a guardarci al sole, esplorarci con parole che diventano più dirette mentre pranzi e concerti si sommano. Nelle aule dei meeting mi sento a disagio, perché dovevamo parlare al sole e all’aria anche di questo, cogito di alzare la mano ma qualcuno precede sempre quello che vorrei aggiungere, e amo guardare le cose accadere. Gira tutta la facoltà cercando pietre e rami con i cani che ti pattugliano intorno, tra tavoli dove la gente progetta chiese e casolari, schivando modellini con curiose danze del ventre, poi torna su, microfona ed assembla, testa ed attacca, riprova oltre, nella superficie brut e paleolitica che andremo ad operare tra altri tavoli che sembrano plance di astronavi. Non abbiamo portato una candela e quindi niente visuals.
Durante il check rianimo un minidisc pieno di suoni orribili e saturi, per testare la sala piena ed i timpani in epilessia come non potrò farlo più tardi – rimango come un babbeo, sorriso ebete mentre navigo la sala e tutti escono : forse così era un po’ altino, mi dice Luca, bianco in volto.
Perdo in blocco il primo A-Team, con rammarico. Ma sono curioso e ad un certo punto sgattaiolo, in tempo per vedere Giuseppe suonare con furia il pavimento, Valerio sconfiggere la gravità di piccoli sassi e conchiglie operando bassi invisibili ed Andrea aggirarsi con i suoi geiger-counters cercando i segni di un pianeta appena laterale al nostro. E non ti spiego nemmeno quanto mi sento a casa.
Insondabili crisi interne ( vabbeh, sonamo tra ‘npò, che volemo fa, allora ? ) ci portano a perdere i Talk show host all’inizio, e lo stesso motivo, in fase discendente, a rinunciare agli S.talker alla fine. Cerchiamo di farcela per Andrea. A sentire i suoi dischi più cupi ti aspetteresti qualcosa di oscuro, tenebroso, ma no, non va così. Ancelle che portano fiori, blocco stampato con titoli, droni come carezze. Poi la firma con l’otto meno – e se la guardi da vicino, è l’esatto musetto di un teddy. Di un teddy ?!?!?!
In realtà la cosa che mi veniva in mente durante il concerto, per bizzarro che possa sembrare, era il momento in cui scoprii cosa significava TLC, negli annunci a scopo matrimoniale sui quotidiani inglesi.
Significava Tender Loving Care . Andrea, secondo me, è ritratto perfettamente da questa sigla. La musica come la persona. Il voto, ovviamente, è (8-) !!!
Ho così caldo che il sudore mi entra negli occhi, me li fa bruciare e mi costringe a tenerli socchiusi. Ma migliora l’ascolto ed è un bene. Laura mi dice di non sudare così, manderò in corto tutto, e ci ridiamo addosso. Nella nostra realtà consensuale sbaglio una cosa dopo l’altra, e i monitor esclusi per non rientrare sui piezo ci lasciano a brancolare dubbiosi sull’effettivo responso degli stessi piezo. C’è molto suono, molto molto, e sono felice.
Nella nostra realtà consensuale, in realtà, sbaglio una cosa dopo l’altra perché sono fottutamente emozionato.
A notte tornati a casa stiamo sempre su altre due ore a parlare con Ryu, poi un’altra ancora a graffiare tegole e picchiare inferriate, prendere il fischio di treni che passano mentre albeggia. I cani non mangiano il cibo secco che abbiamo comprato loro, lo sdegnano per disabitudine e vanno persuasi ed accompagnati con dai e su e altre ore che vanno. Sonnambulismo maldescrive, perciò prova narcolessia. Soprattutto quando cade la casa dal cielo e si schianta, all’inizio del film.
A-team di nuovo, primo per noi. Fuoco e acqua, e la rete che compare per la prima volta, come il monolito di 2001: Odissea nello spazio. Arcoarpa.
Memoria un po’ offuscata sul resto, ho troppo caldo e vedo tutto per cinque minuti, e scappo dietro ai cani che non vogliono star fermi.
(ed è subito sera)
Pierpaolo è stato fino a questo momento l’uomo del mistero per me. Tempo zero per conoscersi, ma sembra simpatico e sereno. Solo durante il suo concerto, con laptop e xilofono e quel video enorme e che rende psicotici a tentare di seguirlo, capisco che in realtà lui è una delle bodyguards di Mark Costello, che pensa ai suoi algoritmi mentre di fuori, fuori dalla sua testa, specifico, accade qualsiasi altra assurda cosa.
Il Luca più giovane mi fa paura quando suona. L’altro no, è molto serio, intento, e dà l’idea di studiare la situazione mentre si evolve. Il primo sembra sporato da un fungo crescituo su una copia data al macero dell’ Arte della Guerra di Sun Tzu : lo guardi e sai che davanti ai suoi occhi, come in matrix, stanno scorrendo migliaia di dati, che descrivono l’intero di quello che accadrà, che solo lui può comprendere alla velocità ed intensità con cui arrivano. E non sto parlando del suo laptop. Fa singoli gesti sporadici durante la mezz’ora, sommabili su poche dita, un toc, uno scratch, e basta, che vanno a cadere esattamente dove i due intendevano, ma puzza di piano demoniaco, determinazione più che samurai.
Il video di Cecconello dietro è molto fermo, e dà l’idea di essere disposto ed assemblato come un giardino di pietre. Me ne convinco appieno verso il ventesimo minuto : questi due figuri amano quello che fanno, amano come si ama un bambino, perché d’un bambino stiamo parlando : la loro musica è forte di cure e insegnamenti e milioni di parole, di attenzione sovrumana, e di un potenziale di crescita praticamente illimitato.
Decido di chiudere gli occhi, così non sono forzato ad accettare l’interpretazione troppo drammatica della danzatrice. Chiudo gli occhi e quello che resta per un po’ a danzarmi sulle pupille è l’afterglow delle stupende fiaccole, messe a segnare le postazioni di Giuseppe e Domenico. E mentre corro dietro alle falene eidetiche che sfuggono inizia a sorgere questo stupendo flamenco noir, una musica incredibile che mi apre o avvolge e lascia attonito, perché non potevo nemmeno immaginarla possibile prima di questo momento.
Un flamenco, dicevo, dove il sorgere di bulerias è dissipato nei microtoni, nel ronzio invisibile dei motorini, ondeggiato nel feedback lentissimo e caliente. Mi verrebbe voglia di fare come Gysin, che aprì un ristorante solo per ascoltare i Jojouka ogni giorno della sua vita : aprirei da qualche parte sulla costa andalusa, e istruirei le mie danzatrici ( flamenco, però ) a ballare molto lentamente, un po’ come tai chi, il volto sereno e completamente appassionato. I due incatenati, ad eseguire variazioni infinite una sera dopo l’altra. E metterei Fhievel come unico palmeros : saprà quello che fare.
Poi qualcuno ne parla a Lynch, e diventiamo tutti ricchi.
Tutto il terzo giorno lo passo nella sala dell’ A-Team, con Matteo che ogni sei minuti cancella la lavagna e riscrive la scaletta, come uno interrogato che sta andando veramente male. Lì dentro per più di mezz’ora è un inferno, mi chiedo come c***** abbia fatto Valerio a restarci per due giorni e oltre, a parare i problemi di tutti e far combaciare cavi, uscite e tutto il resto come nemmeno nel mah-jong. La sala riunioni è molto animata, però, mi fermo cinque minuti, ma ad una certa saltano le ultime due casse, perciò via, rubiamo i monitor nella sala serale : vedo la rete che stava di sotto il giorno prima appesa al centro. Ha tutta l’aria di un vessillo rituale, messa così. E ricominciamo da capo. Vedendo Lino muovere la luce come molti di noi muovono il suono, oltre a restare affascinato, comprendo molto di Brakhage, che magari si muoveva diversamente, ma lasciatemi illudere.
Poi Luca, Domenico, e per la prima volta, vedo Salvatore suonare senza furia, senza rincorsa alla catarsi sciamanica che lo aveva contraddistinto nei giorni precedenti. Negli strati di trame sottili che si vanno tessendo tutti i suoni sembrano bilanciati ed empatici. Vorrei davvero stendermi, rilassarmi, godermi tutto, ma a questo punto la mia pelle, ferita, brucia nel sale del sudore, ho il fiato mozzo, mi arriva tutto un po’ sbilenco. Dovremmo suonare più tardi, Laura non vuole, io tiro di calci dal mattino, sono stanco e non me la sento. Matteo suona una cosa morbida, le field recordings raccolte da tutti alla mezzanotte d’un qualche mese prima diventano irriconoscibile acqua nelle sue mani, porta la temperatura giù di qualche grado, una sicura misura anti-infarto in attesa di chi lo succederà, Elio e Graziano, che spaccano, ed ho detto abbastanza.
Poi tutti assieme, Laura viene convinta a suonare, io mi sento così stanco da aver raggiunto l’illuminazione. Domo le mie orecchie ed il loro appetito di volumi impossibili, aggiungo un sasso e poco altro, el bastante, e la mezz’ora scorre veramente ipnotica, e mano a mano mi rallegro, ricarico, torno vivo. E’ tutto molto bello.
La cena è conviviale, allegra, noto un po’ di quel feeling da ultima sera, ma ce l’ho più in testa che intorno, e agguanto queste persone, oramai quasi tutte familiari, cerco di goderle, quanto più posso.
E giunge la notte.
Nel set di Adriano la sospensione è uno stato che non viene raggiunto tramite il silenzio, lo spazio tra le note che i giapponesi chiamano ma. Il suono è tanto, bordate di esso, lunghe urla psichedeliche pannate in picchiata e campioni vocali stranianti, un video ipnotico e semplicissimo, che tiene legate le pupille nei suoi asserrati ritorni. Quanto più sembra calmo Adriano tanto più il set tocca corde che raggelano, immobilizzano, musica per oscuri laboratori della CIA, persone legate a sedie per giorni. Poi arriva quella telefonata, ed il suono a rasoiate intermittenti. Lui si ferma, abbandona e si scosta, lasciando tutti nel vuoto. Poi torna, dopo un po’, e stacca.
Subito dopo, per le scale, Valerio lo ferma e gli dice : “ Punck, la fai la musica da malati di mente, eh ? “.
Adriano, forse, annuisce, con un gesto difficile da descrivere. Un quadro memorabile.
Ed ora ci siamo, sto per raccontare la fine.
C’è una rete sospesa al centro della sala.
Sotto, un velo vola via e scopre un mixer, un harmonium, un giradischi.
Archi ed e-bows. Un revox e qualche speaker.
E’ tutto buio intorno, e la stessa luce che ha illuminato Andrea e Ciro va ora ad illuminare la carcassa metallica, appesa immota, senza dondolare.
Di qui in poi diventa tutto un tatuaggio sul cervello.
Iniziano Claudio e Valerio e Renato, poi Stefano ed Andrea.
Hanno in mano strumenti per carezzare, suddetti archi ed e-bows, e muovendosi piano, si aggirano attorno alla rete.
Il silenzio in sala è assoluto : non serve nulla di meno per poter ascoltare il suono più piccolo del mondo crescere, prima ancora in zona da allucinazione aurale, poi sempre di più.
Mi viene in mente Bosch per primo, poi le abduction aliene, gli squartamenti sciamanici : un circolo, una loggia di persone che operano, con una strana insondabile agenda in mente, un corpo che smette rapidamente di essere inerte.
Piccoli drones si intessono all’harmonium che entra, tutti si cambiano di posto intendendosi a sguardi, come sola mente alveare mossa da una regia occulta.
Poi Valerio si stacca dall’harmonium, e va al mixer.
Ecco, qui.
Chi era presente sa con esattezza quello che è successo.
Gli altri comprendano le seguenti parole come il balbettare incerto di chi è rimasto in una condizione vicina al trauma per quello che ha vissuto. Tutto quello che ho testimoniato sconfigge completamente le parole. Dunque ne incorono solo una, quella chiave.
Ascesa.
Valerio va al mixer ed il suono sale, cresce.
Un drone enorme, maestoso, densissimo, ad un volume perfetto, che riempie l’intero della sala toccando gli organi interni di tutti i presenti, conducendoli ad un tremore estatico.
Sto in linea con i subwoofer e mi sento come non mi sono mai sentito.
Il corpo mi risuona.
Vengo toccato, nello stomaco, nella testa, nel cuore, nei muscoli e nei nervi.
Cresce oltre il tetto ed il cielo e mi sento estaticamente bene.
Sono felice oltre le parole.
Comprendo dove stavano andando, dove sono arrivati questi giorni, e perché.
Descriverla come un’esperienza di apoteosi significherebbe sminuirla.
Anche descriverla oltre lo farebbe.
Ma solo.
Prima che il drone amplificato cessi, che Renato corra a staccare i main in dal mixer di sala, lasciando all’udito una rete ancora vivissima di mille sibili acustici che cesseranno in un fade dei movimenti, prima che tutto finisca in una enorme ovazione, quando ancora la sala è piena della voce di dio, io mi giro per caso, e vedo Kira.
Sta sdraiata in terra di fianco, completamente dentro a quello che esce dai subwoofer, e dorme.
Le zampe fanno piccoli, dolci movimenti scattosi appena accennati, come una corsa.
Sta sognando.
Adesso posso anche piangere.
Ore dopo, anonimo parco fiorentino.
Tutti lì, a ignorare l’alba palese dietro ai palazzi, stentando ad alzarsi, tutti ugualmente stanchi e collassati, affiatati.
Ci scambiamo saluti, abbracci, promesse.
Con buone chances, verranno tutte mantenute.
Irreali siedono di silenzio come aquile sudate. Anonimo mente alveare tocca corde che raggelano, dovremmo suonare il vessillo attesa. Cosa morbida el bastante. Meeting del ventre, portato un minidisc di rammarico tatuaggio sul fiato mozzo. Sbilenco domo le persone spaccano la luce come molti di noi. Harmonium che entra a sedie per giorni. Vivissima di mille sibili musetto di un teddy consensuale. Un revox i suoni dal mattino piccoli, dolci, e quindi niente nella testa. Nelle aule cogito plance di astronavi, una cosa morbida ballare molto lentamente, lentissimo e caliente significherebbe il suono più piccolo come unico palmeros. Perciò prova narcolessia. Lasciando all’udito un’esperienza che smette rapidamente di essere bianco in volto.
Vicino al trauma ne incorono solo una, estaticamente bene.
p.s.: i due della scena iniziale sono Andrea Belfi e Ciro Rcf, off-site sottocutaneo …
moax
Sì, lo so. Può sembrare superfluo e forse, anzi probabilmente, inutile dirlo…ma, per un attimo, mi sono chiesta per davvero da dove fosse arrivata. Era lì, così, a mezz’aria, palese a todos la sua funzione primaria e condivisa la tacita meraviglia di vederla de- e ri-contestualizzata, inerme e sospesa, apparentemente innocua eppure evocatoria, come forse un’arpa come forse un supporto per una tela come forse pura e cruda trash-scenografia.
No, ti spiego… C’è che i tuoi occhi mi ricordano quelli di un cerbiatto, quelli di quel ragazzino che un giorno mi abbracciò piangendo… Deja vu? Sì, può darsi… Fatto sta che mi vien da raccontarti il sogno che ho fatto ieri notte dopo che ci siam salutati… Perché era bello. Si era in una spiaggia, tutti, a piedi scalzi tra scogli e microsassi e…
Metti caso. Tra la spazzatura, appoggiata ad un marciapiede come quei materassi che ogni tanto si incontrano abbandonati sulle strade. Di Milano quanto di Firenze. Metti caso. Quel cumulo di non ben identificati oggetti-che-furono sotto quel cavalcavia che son certa ti sia capitato almeno una volta di vederlo; uno di quelli sotto i quali capita che il gelo dell’inverno suggerisca di accendere un fuoco; uno di quei cumuli di organico ed inorganico e secco e usato e abusato e sprecato, uno di quelli. Io ce la vedrei. Lì in Bovisa dove le colline artificiali delle cave creano indisturbate vallate di qualche decinaio di metri che diventan case con tetti senza antenne o mansarde ma, in rare notti dall’apparenza disinquinata, stelle e nuvole. In una Bovisa fiorentina, in una Bovisa napoletana, in una Bovisa romana, in una qualsivoglia realtà zingaro-metropolitana. O in una casa, una qualsiasi. Una stanza spoglia e l’Ikea che aspetta a Brescia o spetta a Bologna. Anche lì, sì…
…e tu scrutavi…
No, perché dico. Una rete senza materasso. No cioè mi chiedo. Chi è stato?… Ad intrecciare il ferro in quel modo proprio in quel modo. A decidere che un letto era quella cosa lì con un materasso rialzato rispetto al pavimento (rimasugli di costruttivismo girano – in cerchio – nella mente – un tintinnio – nel torace – un rimbombo – si apre – il suolo – è cielo) che ok sì, capisco, immagino fosse stato umido. Ma a commissionarla al fabbro? E a volerla per il matrimonio?… Come se il mondo fosse stato sempre piatto e il Po mai e poi mai un fiume anche giallo. Chi l’ha pensato, questo mondo di coiti più o meno interrotti su di un materasso poggiato su di una rete che con buona probabilità sarebbe poi un giorno non molto lontano finita in quell’Arizona alle porte di Sarajevo a far da tetto a questo o a quell’altro chiosco vendi-tutto?…(respiro)…
…(ma hai notato i suoi di occhi?…sembrano quelli di un lupo…….e ok che l’immaginazione è un’abile ladra di realtà che, passo felino e morbide movenze, ben si destreggia tra le coscienze e le inconscienze delle nostre esistenze…ma…..………….le spezie, hai presente?……….vedi……mio nonno mi portava sempre con sè ad acquistarle per quel suo sale speciale per la carne………artigiano lui, sì, Cavaliere del Lavoro, testardo e generoso……è lui che m’ha insegnato (ti dicevo?) una notte in sogno a guardarla dritta negli occhi, quell’aquila…….ed è lui, sì, che mi ricordi……………la fisionomia, il modo in cui ti muovi……e forse chi lo sa, un po’ anche sei)………e raccoglievi segni di vita, tipo pacchetti di sighe vuoti, poi, tra i sassi…….mentre l’Oceano schiumava e gli altri salivano verso la scogliera…………..
E così sì insomma mi chiedevo. Questa rete che fu la rete di un letto nel medioevo e che chi lo sa forse adesso arriva da un cassonetto. Tu l’avresti mai immaginato che avrebbe poi vibrato, suonato? No, dico, metti caso. Dalle una memoria, una coscienza, un’anima. Dalle una vita. Toglila dalla discarica o da sotto quel cavalcavia e mettila in un’aula della facoltà di Architettura di Firenze, anno domini 2003. Appendila ad uno, due tre quattro cavi annodati su se stessi che un tipo quando li vede ci resta pure di sasso (o di merda, che dir si voglia), che costano una cifra quei cavi dice e poi comunque solitamente non pendono così dal soffitto per reggere un’idea che t’è venuta il giorno in cui hai capito che Santa Claus era poi mica vero. Metti questo caso e dagli uno spazio-tempo: superfici e suoni, buio e colori, mani (di artigiani (sonori) e respiri (sospesi). Non dovrebbe risultarti difficile rompere certi schemi poi, no. Perché è accaduto e tu c’eri. Eri quel mattone che fin dall’inizio non ha ben capito quale sarebbe stata la sua ragion d’essere accanto al vulcanico woofer piuttosto che tra il potente soffio del lupo e l’abbraccio strettostretto dei tre porcellini intimoriti. Eri la lavagna a cui spiegalo te cos’è quella cosa che ha dato voce al gesso di un Non Uno Di Meno d’un giorno di giugno. Eri anche il rosso, il giallo ed il blu che si sono impressionati sui fino ad allora ignari granuli d’argento della pellicola nella mia Nikon. Eri (nel)lo spazio, ed eri il tempo. Ed eri anche quella rete, sì certo. Non dovrebbe risultarti impossibile, dunque, cogliere i vuoti ed i pieni di quei silenzi calati come solo sipari che non si sono mai visti ma indubitabilmente vissuti. No, per niente. C’eri, e se non c’eri entraci ora. Che chi ascolta veramente e sente, credimi, è chi era in quella stanza, con me e con tutti gli altri, anche mentre (io) mi toglievo le scarpe perché il rumore dei miei passi non si insinuasse indiscreto nel crescendo della (loro) empatia sonora, filtrata dagli strumenti più o meno concepiti come tali, come una quintessenza di vite silenziose, umili eccentriche timide protagoniste confuse convinte perdute trovate rinnovate cresciute regredite comunque diverse e mettici quant’altro puoi metterci delle personalità racchiuse raccolte nascoste protette e/o esibite in e da iXem a Superfici Sonore terza edizione. Mettici il sudore e il suono che abbraccia e cresce e decresce e avvolge e inveisce e colpisce e rientra e filtra e modifica e irrita e cura e provoca e stupisce e porta e allontana e avvicina ed unisce… Mettici le (loro) divise se così vuoi chiamarle, ed aggiungici quei flash tutt’attorno che parevano farne parte: torso nudo, luci spente, silenzio (per favore, grazie)…
…che poi ti sei commosso e non sapevo più che dire e sai non potevo fare molto altro che lanciarmi in un abbraccio e cercare nel contempo di scrollarmi di dosso tutte quelle parole che spesso mi come mi……difendono…….dalla vita……sai, in presa diretta……..che ci sono quei giorni in cui colpisce come una freccia, e il bersaglio che cambia ogni volta….quel filtro di ghiaccio tra i sensi assopiti e il moderno sonnambulismo, uno ad esempio……..lo scioglie e lo fa così, in un attimo, quando incroci uno sguardo o percepisci un sospiro oltre o entro un muro ottico-uditivo…………..m’han regalato un rullino da ottocento t’ho detto?……non sapevo che dire, ti giuro……….mi trema il respiro, davvero…………….sì, un’altro sogno…………no, non un incubo…cioè, solo all’inizio………..ma poi eravamo in un’aula e io me ne stavo ranicchiata contro la parete, con quell’aria smarrita che non sempre so dirti cosa significa………e tu mi hai sussurrato di non aver paura e quando la forza di gravità se n’è andata ed io ho iniziato a scivolare verso l’alto non l’ho avuta………..chi spegne le luci della sala?….e la lampada poi?…….sei così rosso……e azzurro, quando diventi il (tuo) suono, sì……………… Quando si riapre il sipario?
Sì insomma. Per un attimo me lo sono chiesta, davvero. E poi quell’attimo s’è così esteso che m’è parso l’infinito. Ma questo forse non te l’ho detto. O forse sì. Ok non ricordo confesso…è che non c’ho pensato poi più di tanto, l’ho più che altro vissuto. Ed è stato bello, sì, molto.
Andrea Marutti DELLE PIANTE E DEI FIORI
Crescono bene le mie piante, molto più di quel che potessi mai
immaginare. Ricche nelle molteplici sfumature dei loro fiori
colorati, e verdi quel tanto che basta per sperare ancora. Sperare
nella musica che non ha smesso mai di risuonare in ogni angolo, anche
in quelli più remoti, della Facoltà di Architettura, e in una
prossima Primavera dove cantare finalmente di nuovo tutte le canzoni
che continuano a farmi piangere. Ed anche tutte quelle che talvolta
mi hanno salvato dai cattivi pensieri.
Crescono bene le mie piante, senza additivo alcuno se non un po’ di
fertilizzante. Crescono sane e forti, quasi tutta natura e amore. E
nasce spontaneo l’amore per la musica e per le persone, nei prati e a
volte anche nei vasi, come le piante. E come le piante và coltivato e
curato. Il vaso non dovrebbe mai essere troppo piccolo e stringere.
Questo me lo hanno insegnato così tanto tempo fa che mi sembra quasi
di saperlo da sempre. E sicuramente è così, anche se spesso mi
ritrovo ad osservare piccole radici fuoriuscire dal fondo.
Crescono bene le mie piante, ma perché continuo a chiamarle “mie”?
Non sono più mie ormai. E se mai lo sono state, non mi sono
appartenute che per poche ore e già mi mancano tantissimo. Mi sembra
di vederle le mani che se ne stanno prendendo cura e mi spiace non
essere più lì a guardarle. Ora. Piante, mani e tutto il resto. La
città in cui sono rimasto per alcuni giorni, che pur non somigliando
alla mia le è uguale. Mi piacerebbe vederle entrambe trasformate in
enormi serre a cielo aperto così che nessuna pianta, anche la meno
verde, debba più sentirsi sola nell’angolo di un appartamento, sui
bordi dei marciapiedi, all’ingresso dei cinema, in pizzeria…
Crescono bene quelle piante, Sì, quelle che prima chiamavo “mie” ed a
cui mi sono tanto profondamente affezionato. A distanza di pochi
giorni sull’ Ibiscus è nato in un lampo un altro fiore rosso, ancora
più vivace e grande del primo, appassito a sua volta in un soffio.
Colpa della mia musica o della poca luce? Della poca luce nella mia
musica? Chissà il piccolo cactus quando fiorirà. Se fiorirà. Ancora.
Una volta all’anno o una volta nella vita? Troppo poco in ogni caso.
Avessi certi poteri credo cercherei di cambiare alcune cose, per
esempio: fiori di cactus per tutti, tutti i giorni e a qualsiasi ora.
Ed ogni fiore sarebbe occasione per festeggiare. Insieme. A Firenze
come a Milano, Bologna, Roma. Ovunque. Sì, sarei tentato di farlo.
Rivedo nelle fotografie il fiore arancione che nessuno mi ha mai
saputo presentare. Bello, bello, bello, anche se anonimo, e per
questo ancora più affascinante. A conoscerne il nome gli dedicherei
un sonetto decantandone le forme. Piene. Ne sarei capace, anche di
fronte ad estranei. Di recente gli è stato regalato un vaso più
grande, chissà come ci si sente nella sua nuova casa. Spaesato forse,
e timido, come molti di noi la prima delle sere trascorse insieme. Ma
è solo questione di tempo, di avere la possibilità di esplorare un
po’ i dintorni e di acquistare sicurezza. Non più plastica ma coccio
per lui. Un salto di qualità più che meritato alla luce del suo
splendore.
Sono stati giorni stupendi e nulla, proprio nulla, sarà più come
prima. Il fiorellino viola lo porto tutti i giorni nel cuore. E così
per sempre, senza badare a quello che succederà. E a quello che non
succederà. Danza intorno e nei miei pensieri con piccole ali di fata,
senza tregua. Me lo rivedo davanti, così piccolo e fragile, restare
rannicchiato nel suo cantuccio mentre io lo osservo, allungando
idealmente una mano per raggiungerlo, con lo slancio rassegnato di
chi sa di non potercela fare. Anche lui ha bisogno di una nuova casa.
Se avessi braccia forti e mattoni a sufficienza proverei a
costruirla, desiderando di usare anche le schegge rosse rimaste
sparse a terra per qualche ora nell’aula 18, prima che l’addetta alle
pulizie venisse diligentemente a reclamarle.
(8-) Andrea, 25.07.2003