(Erstwhile 2003)
Uno – Tilbury e Rowe, presi singolarmente, sono due musicisti immensi, e nel contesto dell’AMM tale grandezza ha dato vita ad uno dei gruppi più importanti di tutti i tempi. Ma cosa succede a decontestualizzare i due sia dal gruppo che dalla loro poetica personale. Cosa succede a cancellare il terzo incomodo, Eddie Prevost, dalle fila di quell’ensemble e lasciare che Tilbury e Rowe si confrontino faccia a faccia? Beh, il risultato è, banalmente, quello di avere due terzi degli AMM… in tutti i sensi: sia fisicamente parlando che musicalmente. Cioè Rowe e Tilbury, in questo disco, suonano esattamente, né più né meno, come l’AMM senza Prevost. Cosa di non poca importanza, dato che nel gruppo Prevost funziona come collante fra gli altri due, che sono piuttosto diversi e distanti fra loro, oltreché come propulsore dinamico dell’amalgama che la creazione istantanea porta a formarsi. Tilbury è acqua e Rowe è cemento, Prevost è la sabbia che permette all’impasto di restare compatto e prendere forma, senza il suo contributo la musica degli AMM è qualcosa che sta in piedi a fatica, e ancor più faticosamente scorre senza incepparsi al contatto con la benché minima asperità. Quindi l’unica soluzione che il duo può trovare sta nell’evitare qualsiasi velleità strutturale e nello scansare ogni tipo asperità. Il risultato della loro avventura è un disco piuttosto noioso, con i suoni che mai prendono forma comune, che quasi si evitano, e che soprattutto sono esentati da ogni rischio e da ogni avventura, pena il tracollo totale. Mi sembra che entrambi si trovino più a loro agio in situazioni in cui vengono stimolati dalla presenza di sangue nuovo, come avviene nell’ottimo trio, sempre su Erstwhile, in cui Rowe incontra Günter Müller e Taku Sugimoto. Questo è, invece, uno di quei casi in cui uno più uno fa matematicamente due… se non addirittura uno virgola otto. Cioè, sotto le aspettative.
Due – Non so quanti di voi hanno perso una persona particolarmente cara, chi ha vissuto questa dolorosa esperienza saprà qual’è lo stato d’animo che viene a crearsi, e capirà com’è difficile riuscire a esternarlo realmente e quanto è facile, invece, lasciarsi trascinare da atteggiamenti falsi, diretti a tranquillizzare gli altri riguardo l’accettazione della triste realtà e l’adeguatezza delle loro premure. È una situazione che ti porta a vivere in una specie di limbo ovattato, dove le voci del mondo arrivano distorte e spesso incomprensibili. Dico ciò perché, al momento di queste registrazioni, la madre di John Tilbury era morta soltanto da due giorni, e il pianista attraversava probabilmente questo stato di forte emotività. Quindi c’è una giustificazione a quella che sembra essere svogliatezza e deconcentrazione, così come esistono motivi per comprendere quel romanticismo tanto patetico espresso sui tasti del pianoforte. Proprio a Doris, la madre di Tilbury, il CD viene dedicato e, in tal senso, assume per i due musicisti un significato particolare. Purtroppo il dolore per la perdita di una persona cara è una cosa molto intima e riservata, difficilmente condivisibile, e personalmente non avrei mai pubblicato, né registrato, questo disco. Piuttosto avrei distrutto il pianoforte e tutti gli accessori destinati a fare musica. Pur ammettendo che non tutti siamo eguali, e quindi non possiamo avere la stessa reazione di fronte alle situazioni dolorose, come posso riuscire ad apprezzare “Duos For Doris”? Non fa proprio parte del mio stile di vita e neppure del mio modo di (re)agire alle contrarietà. (no ©)
Voto: 6
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Autore: sos.pesa@tin.it