double bass

 

 

 

 

 

 

Ascoltavo il primo lavoro pubblicato a suo nome del contrabbassista Jason Lee Roebke cercando di tirare le somme per una breve conversazione…

Ascoltavo il primo lavoro pubblicato a suo nome del contrabbassista Jason Lee Roebke cercando di tirare le somme per una breve conversazione, quando il nome di Cristoph Gallio e dei suoi Day & Taxi mi torna, dopo diverso tempo, con scioltezza alla mente. Allorché la pongo con sicurezza tra le domande d’obbligo al musicista di Chicago, il quale con altrettanta celerità sfata ogni mia supposizione su una comunione stilistica/emotiva con il combo svizzero. Nonostante ciò, continuo a preservare un punto d’incontro, un‘intesa reciproca predisposta verso i sentimenti più schivi ed introversi del jazz contemporaneo. Questa marcia propensa alla quiete, ad una sporadica timidezza del suono, come nel riuscire con discrezione a dialogare con il singolo strumento, riesce a fuoriuscire da entrambi i progetti. Forse la corda va ad allentarsi in una maggiore attenzione per la pulizia del suono negli svizzeri mentre, in “Rapid Croche” (uscito per la 482 Music) , è facile incappare in accenti di eclettismo, improvvise ramificazioni dirette verso ritmi veloci con lievissimi accenti elettrici. Ma il nodo più importante, spiega Roebke, rimane una desiderosa ricerca della melodia: l’armonia, dunque, è il principale leit motiv della nascita del disco. Un intento espressivo innato in altre formazioni cui ha preso parte e forse, soffermandoci a pensare razionalmente, riesce difficile contraddire la sua idea; se ci si cala nell’odierna scena musicale made in chicago, con l’occhio puntato al ramo jazz, non si riesce a scorgere un paesaggio con una personalità del tutto autonoma; tutto appare come un’ottusa  rilettura in salsa aggressiva e possente di linguaggi passati alla storia da diverso tempo. È la melodia a camminare con l’improvvisazione o viceversa, sembra dirci con chiarezza ad un certo punto. Va approvata la scelta di condividere il trio con la presenza di Aram Shelton (clarinetto, sax alto) e Tim Daisy (batteria e percussioni). Per una descrizione dettagliata del disco vi rimando alle parole di Rastelli su questa webzine, ma ci terrei a sottolineare i punti, a mio modo, più interessanti. L’assolo notturno di Any American ci dirige nel lascivo andamento delle percussioni di Whatever You Think Is Beautiful, la traccia più articolata, perché legata a strutture atonali con giochi di rimbrotti ed un parsimonioso andamento degli strumenti. Il movimento prende vigore in It’s Enough anche grazie alla temerarietà dell’alto di Shelton. Rimane Just Before It Starts la più eterogenea, forse perché in scarsi sette minuti riesce a raccogliere le diverse tendenze presenti nel lavoro. Vestita come una minisuite in crescendo, parte da emissioni acustiche tiepidamente soffocate da entrambi, pian piano si è diretti in territori aspri che adagiano la strada alla sottile melodia del tema principale. Il caos finale potrebbe risentire di un impedimento forzato, e qui una latente paura di lasciarsi travolgere da un’eccessiva anarchia segna, aihmè, uno dei punti sfavorevoli. Se il metronomo scandisce un tempo stilistico personale, senza dimenticare certi insegnamenti confacenti alla tradizione free, questo è un bene, ma un pizzico di free form in più (che al contrario incontreremo nella registrazione per solo basso) avrebbe potuto alzare di molto la valutazione finale. Alla fine potrebbe essere stato questo l’intento di Roebke, creare una combinazione di elementi dalla facile accessibilità per tutti. Effettuiamo una rapida virata accennando qualche nota biografica dell’artista: nato a Kaukauna, piccolo paese di provincia del Wisconsin, Jason approda  prima al basso elettrico da autodidatta con insita la passione per il punk; la propensione per il rock, però, verrà presto accantonata per fare strada agli aspetti improvvisati contenuti nella musica. Durante il tragitto universitario compie dei periodici spostamenti che lo vedranno per breve tempo stabilizzarsi a Madison per studiare insieme a Roscoe Mitchell. Il sassofonista insieme al primo insegnante di basso rappresentano le muse ispiratrici del suo ego musicale. Insieme al primo comincia subito a prendere dimestichezza con le tecniche compositive mediante l’aiuto apportato al membro dell’AACM nel rivedere alcune sue partiture orchestrali. Il definitivo peregrinare per diversi college, dove riesce ad insegnare tramite vari masters, termina con il capolinea a Chicago. La città non essendo parca di tradizione vive in quel momento una contrapposizione fra le new entry (i vari Chad Taylor, Rob Mazurek…) e la rinascita dell’AACM con i palchi ricalcati da vecchie figure (ad esempio Fred Anderson ben si adatta al caso). Giunti alla domanda sull’aria che soffia in città compare New York come segno chiarificatore, nonché distintivo della situazione. Sembra, allora come ora, prediligere lo spirito del sacrificio costernato da scarse possibilità di esibirsi in pubblico. Aria differente dalla grande mela dove la formazione del musicista sembra essere professionalmente più preparata, nonché valutata culturalmente dalla società. Certo, diventa difficile immaginare uno stato precario delle cose riservato all’arte a Chicago, visto che siamo continuamente abituati a lamentarci delle lacune nostrane. Ricapitolando verso i progetti, un’altra tappa di rilievo sta nella collaborazione con l’artista giapponese Ayako Kato all’interno dell’Art Union Humanscape. Progetto dall’appiglio scarno e gestuale. Un dialogo sorretto dalla sola presenza del contrabbasso e dai balli improvvisati di Ayako. Non avendo mai avuto la possibilità di assistere ad una delle loro performance mi riesce difficile esprimere giudizi o che, ma riesco ad immaginare quanto la presenza del silenzio, di sporadiche piccate allo strumento o di sospirati movimenti del corpo siano insiti nella loro collaborazione. In tal caso bene si adatta l’ascolto di “Yu Tai Ri Datsu”, registrazione solitaria risalente a tre anni fa. Il disco ha la carte in regole per farsi un’idea su cosa Roebke generi al momento di duettare con la Kato. Una filigrana sottile che testimonia l’ampia veduta musicale proiettata da un solo strumento. Di sicuro rimane l’ascolto più tedioso, se consideriamo anche collaborazioni con bands intenzionate a rileggere in tinte moderne il folk americano, ma il più stimolante per la forma ossea su cui si regge. L’obbiettivo zooma dalla musica nera (i cospicui lati blueseggianti qua e la), una personale rilettura della musica contemporanea (particolarmente presente quando è l’archetto a direzionare le corde) e giungendo in lidi di audace sperimentazione dove il suono originario viene del tutto trasfigurato. Le restanti apparizioni vanno a rappresentare anche quelle meno interessanti per le tematiche affrontate. Il quartetto dei Terminal 4 è dedito a sonorità soavi di matrice country riconducibili a gruppi dal nome di Pillow, Town & Country… di fatti oltre a Fred Lonberg-Holm e Jep Bishop incappiamo nella chitarra di Ben Vida. La differenza con i gruppi citati sta nel condensare in tutta le tracce un eccessivo animo zuccheroso che rischia di saturare l’ascoltatore di noia, facilmente seguita da sonnolenza. Rimane la chance di ascoltare Roebke, a parte con lievi pizzicati jazzy in Then He Said, dilettarsi unicamente con l’archetto. Tra la altre scorribande, segnaliamo le più significative nell’unione con Rob Mazurek e Dylan Van Der Schyff nei Tigermilk (licenziato di recente il loro disco dalla Family Vineyard) e nella rilettura di alcune opere del violoncellista Fred Katz (esponente rimasto ai margini del  cool newyorkese che ha militato all’interno del Chico Hamilton Quintet) nel trio dal nome chiarificatore: A Valentine for Fred Katz cui fa capo Lonberg-Holm. Nell’intervista confessa, con nostro piacere, di essere un fan della sperimentazione nipponica e, certamente, l’amicizia con Ayako va ben considerata come causa scatenante del flirt. L’estemporanea esibizione all’Off Site di Tokyo rimane la più interessante, perché in chiusura lo conferma come personaggio fuori dai consueti cliché della citata famigliola statunitense. Gli incontri con Sugimoto, Akiyama (Roebke paragona la sua pacatezza alla concentrazione di Mitchell), Nakamura e altri gli permette di conoscere un linguaggio nuovo: costellato da silenzi, pregno di gestualità che gli consente di consolidare, in particolar maniera, l’aspetto performativo, di vitale importanza per il percorso intrapreso. Per chiunque fosse curioso la session è stata registrata e si trova all’interno del primo volume di “Meeting At The Off Site”. Rimane la passione per l’appiglio prettamente acustico, il fisico e l’allenamento che si nasconde dietro, quindi prevedo utopica la possibilità in futuro d’incrociare il nostro in manipolazione e/o aggiunte a base di computer/software particolari allo strumento; un pò la riga dettata da Mota nella precedente intervista sul preferire direzioni prive di manipolazioni…e altro che induca all’uso dell’elettronica. Bene inteso: tendenza, sia da parte dell’artista che del sottoscritto, di tutto rispetto con dentro un manipolo di artisti per niente privi di fantasia e carica espressiva. Solo per evitare spiacevoli inconvenienti di vedute, tra parentesi Roebke non pone una differenza tra i mezzi, la buona musica dipende solamente da chi la esegue…e soprattutto da chi la crea.


Per cominciare ti andrebbe di illustrare il progetto che condividi da diverso tempo con la ballerina Ayako Kato: Art Union Humanscape, dove s’incentra un discorso improvvisativo non solo finalizzato alla musica?

Penso che lavorare con Ayako, nell’Art Union Humanscape, abbia rappresentato una delle esperienze più importanti nel mio maturare come musicista.

Suonare da solo è stato uno specchio delle mie capacità, ma anche delle mie lacune relative al mio rapporto con la musica creativa. In effetti già prima avevo tentato di esibirmi da solo nel 1997 all’ Università del Michigan. Uno studente d‘arte voleva organizzare una serie di concerti in una delle gallerie universitarie. Penso siano stati i primi ed ultimi. Egli girava fuori trovando difficile reperire lo spazio da me immaginato originariamente. Poco dopo il concerto, Ayako ed io abbiamo cominciato a lavorare insieme.

Suppongo che suonare da solo ingrandisca, esagerando delle volte, quel bisogno di esplorare in pieno il suono ed il suo mondo. Ti viene da immaginare diversi aspetti su come il suono potrebbe essere organizzato, strutturato. Nell’Art Union Humanscape non mi capita mai di osservare Ayako mentre si esibisce, l’ascolto solamente. Mi ha insegnato come possedere una maggiore consapevolezza del mondo. Ascoltare, appena, un piede scivolare lentamente attraverso il pavimento o un braccio accarezzare la manica di una camicia è molto elusivo.

La maggior parte dei miei progetti dove suono da solo sono incentrati nel cercare di creare energia. Non è suono, ma energia. Uso molti silenzi, ma a volte non riescono a riempire in pieno lo spazio come vorrei. Nonostante il silenzio mio e di Ayako l’energia riesce lo stesso ad essere presente, scorrendo delle volte come fosse impazzita.

E poi quanto è determinante una visone Zen delle cose in tutto ciò?

 

Non ho imparato molto sullo Zen. Per me rimane ancora un mistero. Non mi sento realmente predisposto verso questa filosofia. Penso non abbia un’influenza diretta sulla mia musica, se non per pura coincidenza. La mia conoscenza sta quasi sullo zero.

Sorge quasi spontaneo domandare se esiste un tuo legame con la storia di Chicago e della tradizione con l’AACM….

Bene…tu sai che l’AACM esiste ancora e che i nuovi membri si ritrovano continuamente. Sento che le persone, anche a Chicago, fanno spesso riferimento ad essa come in passato, ma tuttavia anche l’associazione si è sviluppata con/verso nuove tendenze. Delle volte suono con Jeff Parker e Chad Taylor, loro membri. Il mio collegamento più diretto è attraverso Roscoe Mitchell. Quando ero al college diventava un’abitudine lasciare classe e scuola, guidare due ore per incontrarmi con Roscoe all’incirca una volta al mese.

Dopo essermi diplomato sono andato dove lui vive: Madison, Wisconsin. Alla fine ho cominciato ad andare a casa sua ogni giorno per almeno un anno e mezzo. Stava rivedendo un pò di partiture orchestrali scritte da lui intorno alla metà degli anni ’80. Era tutto nel manoscritto e lo stavo aiutando a mettere le partiture dentro il pc, mentre lui aggiungeva un sacco di materiale nuovo alle composizioni. Più che altro si preoccupava dello spazio tra le frasi. Il modo in cui la sua musica appagava, credo sia stata la più grande lezione impartitami. Posso stare settimane a scrivere cose su di lui senza riuscire bene a spiegare il suo concetto. Poi un giorno a pranzo fece un commento sulla musica. Mi ci vollero circa tre mesi per capire e riflettere su ogni parola. E’ stata una lenta fermentazione ma molto appagante.

La città, ancora oggi, mantiene intatto l’aspetto di laboratorio creativo come negli anni ’60, oppure le cose sono cambiate rispetto al passato?

 

Sono venuto a Chicago nel 1999. Poco prima che Ken Vandermark vincesse il premio McArthur. Pensavo che dopo la vittoria di Ken molti musicisti si sarebbero spostati a New York. Giusto grazie all’istinto hanno deciso di rimanere qui. La scena attuale, l’unica di cui posso parlare per esperienza personale, è grande; ci sono grandi musicisti che lavorano a tempo pieno. Pochi di noi vanno fuori in tour o incidono dischi. Ciò ci regala tempo per suonare regolarmente in vari progetti e sviluppare una piccola società vera e propria di artisti. Quando sono piombato a Chicago tutti noi tenevamo in particolare a fare concerti di libera improvvisazione. Anche lo spettacolo che si creava era una combinazione di persone differenti l’una dall’altra. Mai è capitato di ripetere la stessa cosa due volte. Credo sia stato un buon modo per incontrare persone di livello sociale differente, come conoscere ed affrontare i concetti opposti che i musicisti avevano.

 

Un altro fattore positivo è dettato dal fatto che a Chicago non esiste un apprendistato musicale come per New York. Per esempio: Art Blakey’s Jazz Messangers o Miles Davis cercavano sempre fuori i giovani musicisti da portarsi nelle rispettive bands. Così: molti musicisti newyorkesi per aver suonato in bands famose si sono sviluppati in un contesto di artisti maggiormente preparati professionalmente. Qui, purtroppo, siamo costretti a maturare unicamente al/col nostro pari. Penso ci siano le possibilità per creare qualcosa organicamente di quella portata. Qui non si combatte l’uno con l’altro per opportunismo. Non capita mai di andare in tour con qualche leggenda famosa del jazz di Chicago. Sul serio, non esiste. Nessuno fa musica per soldi. L’atmosfera è molto più rilassata ed aperta.

 

Sembra che quasi tutti i musicisti che maturano a Chicago, dopo la abbandonino non appena possibile. Anche negli anni ’50 Sun Ra, Herbie Hancock fino ai tipi dell’AACM, e anche i più giovani come Steve Coleman, Rob Mazurek e Chad Taylor se ne sono andati tutti appena hanno potuto. Sembra ci sia sempre stata una comunità di improvvisatori in città, ma ce ne sono centinaia d’altri che si sono spostati a NYC.

 

Il tuo interesse per la musica improvvisata, non ortodossa….non omologata alle comuni coordinate nasce con lo studio del jazz. Come indicheresti le tue tappe formative nella tua carriera?

 

Non ricordo molto bene. Quando ho cominciato per la prima volta a suonare facevo punk. Non conoscevo niente riguardo il basso e nessuno mi aveva insegnato come suonare le canzoni, così a malapena  improvvisavo. Mi sono definitivamente avvicinato all’improvvisazione attraverso persone che amavano Ornette, Braxton…il free jazz. Ho avuto la fortuna di avere un grande insegnate di basso sin dall’inizio. Attraverso lui sono stato introdotto al jazz. Purtroppo, essendo cresciuto in una piccola città, era duro trovare informazioni sul jazz, figuriamoci sulla musica improvvisata. Ho trovato libri, da me amati particolarmente, come: “The Freedom Principle” di John Litweiler e “Four Lives in the Bebop Business”. Cercare un cd con i nomi letti era difficilissimo. Era il periodo in cui erano all’inizio, mentre gli lp stavano uscendo di scena. Alla mia città mancava un negozio di dischi usati dove reperire cose improvvisate, ancora niente era disponibile in formato cd. Anche se ho sempre nutrito una certa ‘fame’ per l’improvvisata, potrei facilmente trovare musicisti rock amati da me particolarmente. Quando ero al college avevo la possibilità di prendere in prestito dal mio insegnante di composizione diversi lp. Attraverso  lui mi sono esposto a Julius Hemphill, Henry Threadgill, Art Ensemble Of Chicago.

 

Ho scoperto il mio interesse sia per il jazz che per l’improvvisata all’incirca nello stesso periodo, come amato entrambe le cose dall’inizio. Però ancora oggi esistono molte musiche che sarebbe giusto scoprissi. Molte forme espressive girano per il mondo senza che nessuno le conosca.

Hai un idea particolare della scena avant americana (con cui collabori in diversi progetti: Terminal 4, Tigermilk…) la quale in questi ultimi tempi è cresciuta in maniera preponderante…faresti un excursus sul paesaggio ?

La Bellezza si espande. Non saprei…come qui, molta musica la si trova altrove. La musica che non avrà mai la possibilità di essere ascoltata e le persone che non potranno mai conoscere l’esterno della propria comunità. Non posso dire che si stia evolvendo una nuova scena americana. Al contrario, posso affermare che l’improvvisazione si sta ben integrando con la musica rock in molti sensi. Una maniera è quella di eseguire e registrare. Molte labels di matrice rock stanno cominciando ad interessarsi nel produrre lavori impro e diversi clubs non legati a queste forme riservano serate per concerti senza difficoltà. Credo che l’audience rock riuscirà ad addentrarsi all’interno dell’energia dell’improvvisazione, anche di quella più minimale, senza difficoltà.

 

Invece, con piacere ho fatto caso alla tua collaborazione con l’odierna scena radicale nipponica, delle volte diversa per il distacco da canoni jazzistici e per l’ampio uso del silenzio; cito dei nomi a caso: Tetuzi Akiyama, O. Yoshihide, T. Sugimoto, Sachiko M…sei attratto dal loro mood?

 

Sono un fan accanito dell’attuale scena sperimentale Giapponese. La prima visita nel loro paese è capitata per i concerti dell’Art Union Humanscape. Allora ho avuto l’occasione di conoscere Sugimoto, Toshimaru Nakamura, Masahiko Okura. Forse certe cose della mia espressione musicale hanno dei collegamenti con loro in comune tramite Ayako Kato. Insieme dai suoi suggerimenti abbiamo sviluppato un nostro concetto di calma e silenzio.

Ciò che amo di Sugimoto è la calma e la facilità nel dialogare col silenzio. Può non fare niente e la tua attenzione non…fluttua via. E’il perfetto bilanciamento. La sua musica fa espandere la mente e la fa rimanere espansa per sempre dopo il concerto.

Il suono di Akiyama, per certi versi, mi da l’impressione di essere simile a Roscoe Mitchell nel senso del suo far brillare una sensazione di pace. Lascia alla sua mente di vagare liberamente tra i suoni.

Ho avuto la possibilità di suonare nel luogo chiamato Off Site a Tokyo con Akiyama, Sugimoto e Nakamura. Ne è venuta fuori una parte del cd chiamato: Meeting at Off Site Vol. 1.

Conosci l’Italia, la scena musicale del posto, ma anche allargando l’obbiettivo su tutto l’Europa trovi qualche cosa di realmente interessante da segnalarci?

In realtà non conosco niente. Non mi sono mai spostato dagli Stati Uniti fino a 27 anni. Sin’ora  ho viaggiato soltanto per andare in Giappone e in Canada. Conosco un mio amico, Fred Lonberg-Holm, che è in contatto con Sebi Tramontana.

Ciò nonostante non conosco né la musica, né la scena italiana.

Trovi che certe tendenze odierne nell’andare incontro all’elettronica siano stimolanti oppure un approccio acustico delle cose rimanga importante nell’improvvisazione, ma anche nella musica in generale?

 

Uno strumento acustico dipende dal tuo corpo. Il tuo respiro…i tuoi muscoli. L’aspetto positivo dell’elettronica sta nella tua mente maggiormente capace e diretta nel dirigere il suono. Non hai bisogno di allenare il respiro, il corpo… non devi fare niente. La musica interessante, però, non dipende dal metodo…dipende dall’esecuzione.

Penso che l’elettronica sia molto interessante, una tendenza positiva. E’anche una finestra in cui creare musica per persone che potrebbero, altrimenti, essere solo ascoltatori, dato che così tanti hanno un pc. Poiché l’interfaccia non è fisica, è facile creare qualcosa in maniera rapida e veloce. Ci volevano mesi per creare solo qualche secondo di elettronica negli anni ’50. Così ora penso che molti di quelli che prima erano solo ascoltatori adesso possono cimentarsi nel fare musica da soli. Penso che questo fatto crei un publico più ampio ed ‘educato’.

 

Rapid Croche è stato il lavoro che finalmente ha fatto incontrare in primo piano la tua persona. E’ stato difficile creare un lavoro da solo, ci narreresti una breve storia con qualche aneddoto che ti ha colpito in particolare?

Il trio in compagnia di Tim ed Aram è sembrato nascere appena dopo il mio tentato approccio con altre formazioni. Effettivamente, ho lavorato per diversi anni su alcune delle composizioni presenti sul cd. La ragione della partenza si cela in una mia insoddisfazione provata in diversi gruppi cui collaboravo. Era difficile trovare altrove una ricchezza armonica, una delle cose a cui sono maggiormente interessato. Voglio tentare di creare qualcosa che miri ad una ricchezza piena della musica, ma anche ingegnare il mio diletto nell’articolare sperimentazioni di composizioni dall’alto tasso di velocità, con un conseguente bisogno di precisione. Mi sono stancato di suonare musica priva di melodia dove mancano sia il contrappunto che un’attenzione per l’armonia. Alla fine il progetto è sorto nel tentativo di ricercare questi ideali.

In certi punti del disco mi sono trovato a ricordare delle morbidezze presenti nei Day & Taxi capitanati da Cristoph Gallio. Li conosci?

Sono a conoscenza di una loro venuta negli Stati Uniti diverso tempo fa, ma non ho avuto la possibilità di vederli. Svizzeri, giusto?

Una volta mi è stata data una compilation in cui apparivano all’interno di una rassegna live in Florida. L’ho ascoltati una volta, ma non ricordo che il loro suono mi piacque particolarmente.

Se no, sono stati altri in particolare a fornire ispirazione alla creazione del progetto?

 

Posso dire che ‘Air’ è un trio che mi piace. Loro non sono jazz, non fanno free. Erano così, unici. Ciò nonostante devo ammettere che non possiedo cds o dischi loro. Ne avevo uno, ma l’ho perso o forse prestato al compagno di camera, il quale sostiene di non averlo mai preso. Comunque non ho mai pensato a nessuna particolare ispirazione per questo progetto, ho solamente cominciato a scrivere la musica e ‘Rapid Croche’ è ciò che uscito.

 

Sei più attaccato alle performance live o alla registrazione in studio?

In conclusione preferisco le esibizioni dal vivo. La registrazione è una di quelle cose che mi capita di rado, facendomi delle volte quasi innervosire. Nonostante tutto sono poche le volte che suono dal vivo. Mi capita di esibirmi attorno la città, ma più spesso suono una, due volte al mese

 

Ti andrebbe di compilare un breve lista, con commento a fianco di dischi da te ritenuti ’cool’?

 

Henry Threadgill “You Know The Number”-   Del 1986, amo questo periodo della musica di Threadgill. A volte scrive delle cose così inusuali ed originali. Mi piace anche Fred Hopkins. Penso che sia uno dei più grandi dischi che possiedo.

Mahler “Symphony No.9”   Non sono un esperto di musica classica in generale, ma adoro la ricchezza presente nelle composizioni di Mahler. La sua musica, come tale, scorre in una maniera naturale.

Tammy Wynette “Let’s Get Togheter”– Amo tantissimo le canzoni tristi appartenenti al country & western. Questo disco non è tra i miei favoriti, ma in questo momento è vicino al mio giradischi.

 

Se dovessi scegliere qualche aggettivo per rendere anche una minima idea sul tuo carattere ai lettori di Kathodik, quali segnaleresti?

 

Triste

Sergio Eletto