Breve filmografia del regista di Louisville, che racconta da sempre quel mondo giovanile americano emarginato e sofferente con amore e trasporto e che quest’anno convince e stravince a Cannes.
Di Leonardo Rinaldesi
Enfant prodige di Portland, Van Sant lavora sin dagli anni ’80 nel mondo del cinema. Dopo essersi diplomato alla scuola d’arte Risd inizia a lavorare con Ken Shapiro alla Paramount: a quel periodo risale “Alice In Hollywood”, una ridicoulous comedy su Hollywood; poi, perso il posto alla Paramount, lavora come magazziniere prima e in un’ agenzia pubblicitaria poi.
Ma il giovane Van Sant già aveva le idee chiare: infatti, messi da parte i soldi, inizia a lavorare al suo primo lungometraggio, tratto dal romanzo di Walt Curtis: Malanoche. Ottiene così anche la possibilità di tornare a Portland, suo luogo prediletto di vita e di ambientazioni cinematografiche. Il film conteneva già “in nuce” quelli che sarebbero stati poi i temi ricorrenti della sua filmografia e racconta storie borderline di giovani sbandati e gay con toni espressionistici, angolazioni forti e grandi primi piani in un estraniante bianco e nero. Fin dall’inizio, infatti, i suoi film parlano di storie di emarginati ( drogati, gentaglie dei bassifondi ) e di omosessuali, caratteristica quest’ultima che più gli interessa, essendo lui stesso un omosessuale dichiarato. Tuttavia non troviamo in lui un impegno politico e sociale particolare: rifiuta infatti nel ’93 un film politico per la Warner come “ The Major Of Castro Street” , incentrato sulla vita di Harvey Milk; Van Sant si dichiara infatti un regista gay, non un regista di film gay.
La sua poetica cinematografica è filtrata da una giocosità ed un’ ironia che tocca anche temi drammatici e che soprattutto serve ad avvicinare lo spettatore alle sue storie particolari: presenta infatti le prostitute e le lesbiche (vd. La contessa misogina in “ Even Cowgirls Get The Blues “), i gay e i derelitti della strada con toni da favola come se stesse raccontando una storia di pirati o di marziani, ma quel che conta è che Van Sant sa cosa è e cosa vuol raccontare: sa di essere un borghese interessato a storie particolari e come tale vuole raccontare mondi di emarginazione giovanile con toni favolosi e vivaci, perché sono a lui lontani tanto come le storie di avventurieri e fantasmi.
Anche in film come “Drugstore Cowboy” ( dell’89) e “ Even Cowgirls Get The Blues” ( del ‘93), ci propone situazioni di tossicomani e sbandati ma senza dare mai un giudizio morale sui personaggi: intendiamoci, non che la dipendenza di Bob in “Drugstore Cowboy” venga esaltata, ma viene raccontata senza cedere al ricatto delle emozioni, con piglio quasi documentaristico: “ né pietoso né spietato, senza condannare e senza difendere, ricorda che la morte è una componente essenziale di ogni scelta vitalistica e che esiste anche chi, per eccesso, la sfida “.
Troviamo in questi due film come anche in “Belli E Dannati “( del ’91) un altro tema fondamentale di Van Sant: il viaggio. Viaggio metaforico (allucinato o simbolico che sia) e reale si intersecano per dar compimento ai personaggi. In genere il viaggio può essere inteso come ricerca delle proprie origini e della propria famiglia ( Vd. Mike di “Belli E Dannati”) o come modus vivendi essenziale ed imprescindibile: in “Cowgirl, Il Nuovo Sesso” Sissy ha il bisogno vitale di viaggiare ( infatti i pollici iniziano a dolergli quando sta ferma). In “ Drugstore Cowboy” il viaggio è mentale, dovuto all’uso e abuso delle varie droghe. Nel successivo “Will Hunting, Genio Ribelle” il gruppo di amici trasforma il viaggio in un vagare vuoto di emozioni e stimoli, a bordo della loro vecchia macchina per le strade di Boston.
Nella filmografia finora analizzata appaiono evidenti le suggestioni letterarie e cinematografiche del cinema di Van Sant: prima fra tutte un certo sodalizio artistico tra il cineasta e William Burroughs, scrittore maledetto della beat generation, con il quale Van Sant fece nel ’85 un mini-cd (prodotto dallo stesso Van Sant), un cortometraggio e anche la scrittura narrativa di “Even Cowgirls Get The Blues”, senza contare la stupenda interpretazione del prete tossicomane che lo scrittore fece in “Drugstore Cowboy”.
Anche Andy Wharhol e i registi-artisti dell’underground degli anni ’60 colpiscono il regista di Portland nella creazione artistica. La teatralità ricorda, invece, molto quella di Orson Welles, soprattutto in film volutamente sopra le righe come “ Belli E Dannati” in cui il regista si rifà palesemente al “Falstaff” di Welles del’66 oltre che al “Enrico IV” di Shakespeare, autore che riprende molto soprattutto per i dialoghi e le situazioni. Trovo inoltre ci sia anche una forte influenza in Van Sant di Pasolini per il lirismo dei bassifondi e per l’attenzione e la pietà per gli uomini, anche se, sostanzialmente, rinnega dell’autore italiano l’iconografia cristologica eretica e contadina; qui vengono maggiormente alla luce le radici americane del regista, che mette spesso i suoi giovani protagonisti alla ricerca delle loro radici, del loro passato. Questo tema è spesso sottolineato dai titoli dei film, come “Drugstore Cowboy” o “ Cowgirl, Il Nuovo Sesso” e lo stesso “My Own Private Idaho” ad indicare un comune luogo di provenienza: il vecchio west. I personaggi derivano dagli indiani e dai pionieri e a questi cercano di ricongiungersi, in continua ricerca delle proprie radici; sono corpi volanti e randagi che si stagliano contro la stabilità delle convenzioni borghesi e sono messaggeri d’utopie che a loro volta ci fanno riflettere sui nostri sogni o ricordi di fanciullezza. Fondamentali a questo scopo sono le scene in super-8 che il regista inserisce nei film come rievocazioni dell’infanzia, dei genitori, della casa e che in qualche modo comportano uno squilibrio o delle ripercussioni sul presente: le immagini di Mike bambino (“Belli E Dannati”) ci raccontano della sofferenza della sua attuale orfanezza, quella di Will (“Will Hunting-Genio Ribelle-“) ci giustifica la sua riluttanza nell’aprirsi ai rapporti umani.
In tutti i casi, comunque, il corpo è alla ricerca della sua storia e delle sue radici e soltanto quando ha conquistato la sua vera identità storica, potrà fecondare il luogo che attraversa. Infatti gli spazi sono caratterizzati dall’assenza di memoria: sono abbandonati, spettrali; solo il passaggio di un corpo che ha riconquistato la sua identità potrà conferire loro un significato: dunque è evidente il richiamo ai Western americani dove la “civilization” e la “wilderness” si scontravano. Alla luce di questa analisi potremmo trovare una continuità stilistica e contenutistica ammaliante e coerente, ma il cinema di Van Sant è anche altro: significativo è il caso di “Psycho”(’99), rifacimento dell’ineguagliabile capolavoro che Hitchcock diresse nel ’60. Questo film, commenta il cineasta di Portland:” è una riproduzione, non un remake”; con questo Van Sant omaggia il genio di Hitchcock, riproducendo inquadratura per inquadratura l’originale: il focus è sull’interpretazione e sull’aggiornamento dal punto di vista registico, fotografico e, in parte, della sceneggiatura ( fondamentale l’accenno alla masturbazione di Norman Bates). Rimanendo fedele all’originale quasi in religioso ossequio, crea un’opera di fascino sublime che vuole richiamare alla contemporaneità il capolavoro del genio inglese, e attualizzarlo (grazie all’uso del colore) per le generazioni più recenti che potrebbero sentirsi lontane dai grandi classici.
Il genio di Van Sant si sposta in un indefinibile equilibrio tra scena indipendente (“Cowgirl, Il Nuovo Sesso”, “ Belli E Dannati”) e scena hollywoodiana ( “Will Hunting”,”Scoprendo Forrest”) ed è proprio in base a tale atteggiamento che, dopo i successi di “Will Hunting, genio ribelle”(vincitore di due premi oscar) e “Scoprendo Forrest”, Van Sant si riaffaccia nella scena indipendente, nel suo “My Own Private Idaho” con film come “Gerry” ed “Elephant”.
“Gerry”, sua penultima creazione, non è uscito in Italia e la critica si è limitata ad esaltare le potenzialità di un film fantasma, lasciandoci ancora di più nello sconforto della penosa distribuzione nel nostro paese. “Gerry” è “pura immagine sonorizzata in movimento”, un mondo di (cow)boy erranti e vagabondi in spazi deserti, di corpi fragili e volti assenti, di sonoro fatto di vento, di passi lenti, lande immobili e nuvole che corrono veloci. I due protagonisti attraversano il deserto in macchina (entrambi si chiamano Gerry). La macchina si ferma e i due scendono e senza parlare attraversano l’oceano di sabbia. Cinema antitetico a quello sensazionalistico di oggi, poesia dell’immagine, del passo lento, del suono del vento e di quello del silenzio, degli spazi immensi, di fotografia del divenire che accurati piani sequenza accompagnano spesso in strabilianti metamorfosi. Cosa c’è da capire in “Gerry”? Niente, se non il fondamento del cinema, una dichiarazione di poetica e di estetica, un western (un altro!) esistenziale ed intimo, dove contano la luce, il corpo e il magico suono del silenzio.
Elephant
Di Gus Van Sant
Produzione Usa 2003
Sceneggiatura: Gus Van Sant
Cast: Alex Frost, Eric Deulen, John Robinson
Distribuzione: BIM
Definirei “Elephant” la dichiarazione più significativa dell’intera poetica ed estetica cinematografica del regista, che crea questo film in modo totale, curando sia la sceneggiatura che la regia ed il montaggio. La storia riprende la cruda e lancinante strage del liceo di Colombine, che nell’Aprile del ’99 impressionò il mondo intero e che fu raccontata magistralmente nell’ impressionante documentario-oscar da Michael Moore soltanto un anno prima. Il titolo, invece, è preso da un documentario di 35 min. di Alan Clark (1989) per la BBC, incentrato sulla violenza tra cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord, ma allude anche al proverbio americano dell’ “elefante nella stanza” di cui paradossalmente nessuno se ne accorge ed alla parabola buddista del cieco che è convinto di conoscere la vera natura dell’elefante basandosi sulla parte che ne sente al tatto, senza mai afferrare il tutto.
L’orrore viene mostrato senza fornire spiegazioni: Van Sant non affronta mai il “perché” dell’evento, ma ne mostra il “come”. Racconta la giornata nel campus come se fosse una come tante fino al tragico e violento epilogo. Scende tra John, Elias, Alex, e gli altri protagonisti e li segue con sguardo obiettivo. Van Sant ha richiesto che gli attori partecipassero alla stesura della sceneggiatura in modo tale da fornire ai dialoghi e alle situazioni freschezza e forza realistica, concependo la scrittura come opera sempre “in fieri”, in cui i ragazzi potessero raccontarsi. Rifiuta ogni spiegazione psicologica e sociologica, non è morale, ma segue i suoi personaggi con lunghi piani sequenza per tutta la scuola e ci mostra la stessa azione da più punti di vista dandoci una grande immediatezza e facendoci sentire tutto il gelo di ciò che sta per accadere fino alla strage finale. Rifiutando categoricamente la drammaturgia, ci presenta la vicenda con piglio quasi documentaristico: la routine quotidiana, i dialoghi banali, situazioni veloci e marginali, come, ad esempio, il lungo piano sequenza che inizia seguendo le ragazze per poi discostarsene, addentrandosi nelle cucine a svelare la scena dei due cuochi che si passano uno spinello e, alla fine, torna a riprendere le ragazze che si stanno accomodando ad un tavolo della mensa. Tutto nel film è ridotto a comportamenti. Scarsissimi i dialoghi che ci possano aiutare a motivarli, a inquadrarli. “Elephant” è poesia dell’avvenire inesorabile ed inarrestabile, è un sussurro di orrore, è amore per i giovani che restano sempre le vere vittime dei loro genitori e di quell’America di cinquantenni di cui lo stesso regista dichiara di far parte, riassumendo in sé le responsabilità di un paese che perde sempre più il contatto con i propri figli ed i propri valori (emblematico, in tal senso, il rapporto tra John e suo padre fin dalla prima scena). Lo stesso regista dichiara, infatti, in un’intervista: ”Una società in cui un uomo, da solo, può mandare il suo paese in guerra, andando contro la volontà di molti suoi concittadini, è una società con leggi sbagliate”. Così come è sbagliato che in un paese un ragazzo possa facilmente acquistare armi da fuoco su internet . In questa storia che tratta con gelida lucidità una situazione enorme (“Elephant”), Van Sant lascia trapelare che, se una qualche speranza alla fine c’è, questa va ricercata nei ragazzi ( il film, infatti, è girato in campo medio, metafora della media età) che vanno incontro inermi all’incubo finale, anticipato metaforicamente dalla sequenza delle nuvole che si addensano prima del temporale. Le musiche classiche stridono dolcemente e piangono sui giovani protagonisti che sembrano, guardando in alto, aspettare qualcosa che non riescono a capire ma a cui non si ribellano; stupenda la scena in cui uno dei futuri massacratori suona al piano “Per Elisa”, mentre l’altro spara a raffica in un videogame. Breve (80’), essenziale, poetico, un grido verso il cielo.
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