(Edizioni A/Wide 2004)
Cercare di fare una recensione di un tributo alle canzoni, e in fondo al mondo di Fabrizio de Andrè, se da una parte si presenta problematico, dall’altra resta un’operazione molto facile da eseguire. De Andrè ci manca, manca a me come manca a molte persone che vivranno con una particella infinitesimale deandriana in corpo, per sempre.
Come si può recensire un disco in cui traspare tutto l’amore, la conoscenza e la consapevolezza che quelle parole non sono parole, che quelle note non sono semplicemente note? Si rischia di essere non obiettivi, accecati dalla bellezza imperitura di quelle parole, di quelle immagini.
Se una cosa colpisce di ogni canzone presente nei due dischi, questa è la gravità di ogni voce, come se invece della voce arrivasse a chi ascolta l’anima di chi canta.
De Andrè ha fatto della semplicità il velo su cui distendere tutta la sua vita, e la vita del mondo che lo circondava. Forse è per questo motivo che parlandone non si riesce ad usare lo stesso filtro, la stessa semplicità, geniale linearità.
Qui non si tratta più di cantare parole altrui. Si tratta di cantare il proprio modo di vivere e di vedere le cose, consapevoli allo stesso tempo che le parole non sono di chi le canta ma appartengono al mondo intero, alla terra e alle urla silenziose di ognuno di noi.
Così, personalizzare le canzoni di Faber, cantarle a modo proprio, non significa voler imporre la propria voce, la propria “bravura”, ma far vedere come la musica di Fabrizio abbia varcato i confini spazio-temporali, e come allora rotoli per deserti e si sporchi di sabbia ed entri nelle tende solitarie ( Sniper: Inverno). Come percorra le strade solitarie dell’America (The Walkabouts: Disamistade). Vagabondi per le lande brulle irlandesi (Eire Nua: Geordie).
Questo disco ha un filo caldo e vischioso dentro di sé, che lo percorre; sembra quasi visibile tra le note, ci penetra con il suo calore. Così, ad esempio, dopo aver contemplato sbalorditi l’Ave Maria, siamo trascinati a scalare i pensieri sonori che preludono a Se ti tagliassero a pezzetti.
Far finta poi che non esista un altro tributo, molto molto recente, ma molto molto più blasonato, non sarebbe giusto. E non è giusto neanche volerli contrapporre, far uso di uno di quegli esercizi tanto di moda di critica a prescindere.
Perché se “Faber, amico fragile” è un tributo, a mio parere alla luce del sole, ma anche alla luce dei riflettori, alla luce di un ennesimo “anch’io devo molto a questo genio”, “Mille papaveri rossi” invece vive nell’ombra, si nutre di quell’amore sconfinato che, una volta ascoltato ti salta in faccia e ti agguanta alla gola.
Non è un caso se la prima frase scritta a lettere cubitali nel libretto è “NULLA DA DIRE SOLO DA ESSERE”. Perché questo avrebbe voluto Fabrizio de Andrè, che si cantasse non la sua memoria, ma che si continuasse a guardare con i suoi occhi, dopo che ci aveva mostrato come fare, il mondo, l’umana esistenza, spogliata da orpelli estetici, e ricondotta alla sue essenza.
Perché, se la forma muta, la sua radice è eterna.
Voto: 10
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Autore: chiara.bordoni@email.it