Speciale Cinema. Primo Capitolo: Shohei Imamura
di Kittychan e Roberto Donati
Fa caldo. Perché non una retrospettiva sui “film umidi”? Nasce così (più o meno) la collaborazione fra Kittychan e Roberto Donati, autorevole firma di Centraldocinema, nonché film-maker e critico cinematografico – di prossima pubblicazione il suo libro dedicato al cinema di Sergio Leone – che ci ha gentilmente inviato delle curatissime schede tecniche (Arigatooooooo !)
Per farla breve, finalmente Transasia diventa collettivo.
Iniziamo la collaborazione di comune accordo con un esponente della cosiddetta Nuberu Bagu giapponese tuttora all’attivo: Shohei Imamura.
(foto1: calligrafia)
SHOHEI IMAMURA: UMORI, UMIDITA’, UMIFICAZIONE
di Kittychan
“Ho sempre voluto farmi delle domande sui Giapponesi, perché è il solo popolo che sono in grado di descrivere…Sono sorpreso dell’attenzione che ricevo in occidente. Non credo davvero che la gente possa capire ciò di cui sto parlando” (Shohei Imamura)
Non so se avete avuto l’occasione di vedere al cinema quel memoriale collettivo chiamato 11’09’’01 . L’ultimo corto era curiosamente ambientato in Giappone alla fine della seconda guerra mondiale e raccontava la storia di un uomo serpente. Vi sarete allora fatti un’idea di quello che significa comprendere ed amare in occidente un regista come Shohei Imamura.
Se siete dei cinefili invece a quest’ora starete sorridendo: quale misero esempio è questo per un autore del calibro di Imamura, oggetto di attenti studi universitari, nonché eletto protagonista e vincitore di Festivals internazionali (nel 1998 l’ultima volta a Cannes)
Fango, insetti, ossa, cibo, serpenti, uova, nascite, fetore, superstizioni, disoccupati, prostitute ed ancora di nuovo, fango, pozzi, rettili, anfibi, fame, morte.
E’ il cinema del popolo giapponese o del Popolo? Siamo davvero immuni ai bassifondi umidi ed umorali dell’esistenza?
(foto 2: Shohei Imamura)
Nuberu Bagu, traslitterazione in katakana di Nouvelle Vague, è il termine con cui si designa la generazione di cineasti emersa fra gli anni 50 e 60 in Giappone. Il gruppo includeva i “giovani in collera” della major Shochiku: Nagisa Oshima, Masahiro Shinoda e Yoshihide Yoshida essenzialmente.
Il modello di riferimento di questi nuovi cineasti non era né il cinema giapponese classico né tantomeno quello hollywoodiano, bensì il nuovo cinema europeo, Resnais, Godard o Antonioni.
Dei vecchi maestri – i protagonisti della prima ondata giapponese – come Ozu o Mizuguchi criticavano la rigidità formale e l’approccio borghese responsabile di immutabili ricette sul melodramma e sulla commedia sentimentale.
Nel 1960 esce “Racconti Crudeli della giovinezza” di Nagisa Oshima ed è subito scandalo.
Oshima facendo propria la rivolta inaugurata dal movimento cinematografico e letterario dei “taiyozoko” – i fratelli Ishihara – mette in scena il cupo ritratto di una generazione perduta e corrotta, un ritratto animato da una regia acida e innervata da assoluta libertà formale.
Dalla parte della Nikkatsu è il giovane Imamura a rompere con le convenzioni narrative inaugurando una potente miscela di entomologia umana e veggenza neorealista:
La realtà è fatta di quei piccoli reliquari, la superstizione e l’irrazionalità che pervade la coscienza giapponese sotto la maschera dei completi da business-man e dell’avanzamento tecnologico (Shohei Imamura, 1977)
Interessanto alla correlazione fra parte bassa dell’animo umano e parte bassa della società, Imamura documenta il vero tessuto sociale del Giappone del dopo guerra: i suoi eroi anti-eroi sono le prostitute, i killers, contadini, ladri, pornografi della classe media.
Tuttavia è difficile parlare di film denuncia o di taglio populista; l’occhio è piuttosto quello dell’antropologo e dell’etnologo (“I Pornografi” film del 1966 ha per sottotitolo Introduzione all’Antropologia) in un faticoso equilibrio fra sospensione ermeneutica e partecipazione emotiva.
Un’urgenza che spesso lo porterà a privilegiare la forma documentaria e sarà solo sul finire degli anni 70, quando l’azione dell’etnologo rischierà di farsi fin troppo partecipante, che il regista, da buon scienziato, si volgerà definitivamente alla fiction:
Iniziai a chiedermi se il documentario fosse davvero il mezzo migliore per rappresentare questa materia. Capii che la presenza della camera poteva materialmente cambiare la vita della gente. Avevo il diritto di provocare tali cambiamenti? Non stavo forse impersonando il ruolo di Dio nel cercare di controllare le vite degli altri? Non sono un umanista sentimentale, ma pensieri come questo mi spaventarono e mi resero lucidamente consapevole dei limiti del genere documentario
(foto 3: scena da ‘Il Profondo Desiderio Degli Dei’)
La potenza visionaria di Imamura si gioca tutta qui; come una lacerazione, una fioritura nello scarto fra sguardo scientifico e vividezza narrativa. In questa zona neutra c’è spazio per la massima intensità passionale, per un coinvolgimento non artificioso, per l’invasione spietata ed essenziale dell’emozione, quasi fosse un rigonfiamento dello schermo o una voragine da allucinazione collettiva.
Sono paradossalmente il distacco e la lucidità a rendere possibile l’emergere della passione e che sia veicolata dall’amore o da intollerabile violenza poco importa; Imamura è semplicemente interessato alla “nuda verità”.
Un cinema costruito sul continuum di umidità, stati umorali e processi di umificazione: quando le sostanze organiche diventano humus, cioè semplice terra, o meglio condizione non spettacolare per nascite inattese.
Imamura si è detto, guarda in basso, guarda dal basso, esplora la terra umida. La potenza filmica stessa dipende dalla stessa logica generativa dell’elemento passionale. E’ un’escrescenza spontanea e temporanea della terra, l’imprevisto ciclico di un mondo spietato: la vita torna al fango per generare altra vita (il neonato morto nel campo in La Ballata di Narayama è concime per altra vita)
(foto 4: ‘La Ballata Di Narayama’)
Da qui l’indifferenza, dal sapore animista, per il soggetto (protagonisti sono anche i batteri del Dott. Akagi, il vento o l’acqua) ed il privilegio concesso agli organismi imperfetti – l’uomo in primis – a raccontare la lotta alla sopravvivenza e a rilanciare il pietrificante Valore dietro qualsiasi altro valore: l’esistenza.
Filmografia di Shohei Imamura:
STOLEN DESIRE (NUSUMARET YOKUJO) 1958
NISHI GINZA STATION (NISHI GINZA EKI-MAE) 1958
ENDLESS DESIRE (HATESHI NAKI YOKUBO) 1958
MY SECOND BROTHER (NIANCHAN) 1959
PIGS AND BATTLESHIP (BUTA TO GUNKAN)1961
THE INSECT WOMAN (NIPPON KONCHUKI) 1963
INTENTIONS OF MURDER (UNHOLY DESIRE, AKI SATSUI) 1964
THE PORNOGRAPHERS: INTRODUCTION TO ANTHROPOLOGY (JINRUIGAKU NYUMON) 1966
A MAN VANISHES (NINGEN JOHATSU) 1967
THE PROFOUND DESIRE OF THE GODS (KURAGEJIMA: TALES FROM A SOUTHERN ISLAND, KAMIGAMI NO FUAKI YOKUBO) 1968
A HISTORY OF POSTWAR JAPAN AS TOLD BY A BAR HOSTESS (NIPPON SENGO SHI: MADAMU OMBORO NO SEIKATSU) 1970
KARAYUKI – SAN , THE MAKING OF A PROSTITUTE (KARAYUKI – SAN) 1975
VENGEANCE IS MINE (FUKUSHU SURU WA WARE NI ARI) 1979
EIJANKAIKA 1981
THE BALLAD OF NARAYAMA (NARAYAMA – BUSHI KO) 1983
ZEGEN (THE PIMP, A PANDER) 1987
BLACK RAIN (KUROI AME) 1989
THE EEL (UNAGI) 1997
DR. AKAGI (KANZO SENSEI) 1998
WARM WATER UNDER A RED BRIDGE (AKAI HSHI NO SHITA NO NURUI MIZU) 2001
11’09”01 (Japan segment – omnibus film) 2002
RECENSIONI E SCHEDE TECNICHE
a cura di Roberto Donati
ACQUA TIEPIDA SOTTO UN PONTE ROSSO (Akai hashi no shita no narui mizu) GIAP-FR 2001
(foto 5: ‘Acqua Tiepida Sotto Un Ponte Rosso’)
di Shohei Imamura con Koji Yakusho, Misa Shimizu, Mitsuko Baisho, Mansaku Fuwa, Kazuo Kitamura, Hijiri Kojima. ° Animato da intenzioni cleptomani, un disoccupato lascia la famiglia e si reca sulla penisola di Noto, dove però si innamora di una donna che a ogni amplesso libera grandi quantità dal proprio corpo, attirando i pesci del mare. Deciderà di restare, ma la particolarità – e con essa l’amore – inizia a diminuire. Accostando modernità e tradizione come di consueto, Imamura costruisce attorno a due personaggi principali e a una serie di individui bizzarri e fin troppo simpatici una favola sul bisogno d’amore e, di conseguenza, di sesso, antidoti alle meschinerie della vita reale capaci di accendere sane passioni e di risvegliare bellezze sopite (si noti la solenne freschezza dell’ultima immagine con l’arcobaleno). Certo, c’è molta scaltrezza commerciale dietro a immagine spurie e apparentemente incontaminate, ma la qualità di Imamura è anche sempre quella di riuscire a combinare slanci poetici e banalità d’autore. Il film, uno dei pochi del regista a essere arrivato in Italia, è anche conosciuto col titolo più letterale L’acqua è tiepida sotto il ponte rosso. BN/COL COMM 119’ * * ½
BLACK RAIN (Kuroi ame) GIAP 1988
(foto 6: ‘Black Rain’)
di Shohei Imamura con Yoshiko Tanaka, Kazuo Kitamura, Etsuko Ichihara, Shoici Ozawa, Norihei Miki. ° Il 6 agosto 1945 una bomba atomica cade su Hiroshima: nelle rovine della città e fra i morti, i signori Shizuma e la nipote Yasuko cercano la via di fuga, ma la giovane è colpita dalla radioattiva pioggia nera che cade dal cielo. Cinque anni dopo, Yasuko vive ancora cogli zii, in un villaggio di superstiti poco fuori la città. E siccome la gente continua a morire per le radiazioni indirette, gli zii si preoccupano di trovare un marito a Yasuko prima che possa essere troppo tardi. Prima di Kurosawa, Imamura (anche cosceneggiatore) si confronta di petto con il peggior incubo della storia giapponese, quel fungo atomico che apparve nel cielo e che determinò la resa incondizionata di un intero paese e di un intero popolo: così il regista, come ossessionato dal quel tragico evento, ci ritorna spesso tramite flashback angosciosissimi commentati da una musica luttuosa e critica. E anche se, a dire il vero, c’è del sensazionalismo nelle immagini (in sintonia con lo stile e con il metodo di Imamura), è proprio l’inizio nel “lazzaretto” di Hiroshima – indimenticabile l’uomo che prima di morire cadendo da una finestra grida “dov’è Hiroshima? È scomparsa” – la parte più riuscita e toccante, e non tanto la successiva descrizione di una vita tranquilla che è costretta a confrontarsi nuovamente – simbologia animale, visioni allucinate e danni corporali – con gli orrori fisici e morali di quel giorno. Anche perché, per essere del 1988, il film è vecchiotto sia in quanto a stile che in quanto a ideologia: ma paradossalmente, col senno di poi, riesce ad anticipare il “contrappasso” dell’orrore delle immagini (amatoriali e non) che hanno mostrato al mondo intero la tragedia americana dell’11 settembre 2001 (e forse non è un caso, allora, che un episodio del film collettivo dedicato a quell’evento sia firmato proprio dallo stesso Imamura). Dopo questo film, inedito in Italia, il regista cadde in un silenzio forzato per otto anni. BN DRAMM 123’ * * *
THE EEL (Unagi) GIAP 1996
(foto 7: ‘The Eel’)
di Shohei Imamura con Koji Yakusho, Misa Shimizu, Mitsuko Baisho, Akira Emoto, Shoichi Ozawa. ° Estate 1988, mentre la Corea si prepara ad accogliere le Olimpiadi a Seul: avvertito da una misteriosa lettera, Yamashita scopre la moglie a letto con un amante, e la uccide per poi costituirsi. Dopo otto anni di prigione (tanti quanti quelli di autosilenzio creativo che Imamura si impose dopo Black rain), torna a vivere e a lavorare, come barbiere, in un piccolo villaggio di pescatori; salva l’aspirante suicida Keiko, somigliante alla moglie, a cui poi però non vuole legarsi, ma trova in lei un’altra compagnia, potendosi così permettere di dare la libertà all’anguilla (eel) con cui dialogava fin dai giorni del carcere. Dopo otto anni di silenzio, dunque, Imamura torna alla regia sceneggiando col figlio Daisuke (che usa lo pseudonimo Daisuke Tengan) un racconto bucolico e leggiadro sulle nuove possibilità che la vita offre costantemente e intrecciando, in un ambiente genuino e ingenuo quasi fuori dalla Storia, il destino di due solitudini che esigono pietà e rispetto. La metafora dell’anguilla è scopertamente semplice, così come facilmente poetica è l’intera opera, il ritmo è placido e surreale (tanto quanto il ragazzo che crede agli Ufo), i valori buoni sono esplicitati senza tanti complimenti e il finale è amarognolo e ambiguo solo in parte: eppure, nonostante la poesia rischi sovente l’artificio, il film funziona, tanto nelle scene crude (l’omicidio della moglie, con il sangue che sporca addirittura l’occhio neutro della cinepresa, rendendolo partecipe – insieme allo spettatore – dell’assurdità di tanta violenza) quanto in quelle soavi tese a dimostrare che il lavoratore indefesso e accanito pescatore Yamashita è il vero “alieno” di una società ritualizzata e sempre pronta a condannare senza giudicare. Un tantino esagerata, comunque, la Palma d’oro al 50° festival di Cannes (cosa che, comunque, non ha reso il film visibile anche in Italia), ex aequo con Il sapore della ciliegia di Kiarostami. DRAMM 117’ * * *
IL PROFONDO DESIDERIO DEGLI DEI (Kamigami no Fukaki Yokubo) GIAP 1968
(foto 8: ‘Il Profondo Desiderio Degli Dei’)
di Shohei Imamura con Rentaro Mikuni, Choichiro Kawarazaki, Kazuo Kitamura, Hideko Okiyama, Yoshi Kato, Yasuko Matsui, Izumi Hara. ° “Con Il profondo desiderio degli dei superstizioni e modernità, panteismo e passioni umane si sviluppano visceralmente nell’ambiente di un’immaginaria isola a sud-ovest del Giappone: a Kurage gli abitanti sono ancora primitivi, la leggenda della creazione dell’isola da parte degli dei è ancora viva e vissuta; specie da una famiglia ‘maledetta’, che spende la propria vita scavando un’enorme buca per far rientrare nelle viscere della terra un grande blocco di pietra, simbolo concreto del disappunto divino per le scelleratezze degli uomini. In parallelo cresce la vicenda dello sviluppo tecnologico dell’isola (legata ad una raffineria di zucchero), ma pure l’ingegnere inviato per i lavori resta avviluppato nella rete di superstizione e sensualità del luogo. Forte di una potenza visuale inusitata Il profondo desiderio degli dei si chiude con un rito omicida di straordinario ritmo e suggestione: una vela rossa che naviga senza più controllo nel Mar della Cina coniuga esemplarmente il dramma della vita umana e la potenza del mito arcaico”. Inedito in Italia e recuperato (in originale con sottotitoli) dal solito Ghezzi a Fuori orario. DRAMM 172’ * * *