Lo sguardo di tenebra: un breve ritratto di
Jennifer Jason Leigh
Di Marco Fiori
Se c’è un’attrice che ha rappresentato le oscurità della vita negli ultimi venticinque anni di cinema nordamericano – dentro e fuori Hollywood – ed è assurta, almeno in certi periodi, ad icona sbilenca di rabbiosa estraneità, questa è Jennifer Jason Leigh: bambina prodigio di televisione e cinema, volto imbronciato di crudeli storie anni Ottanta, una carriera segnata da alti e bassi anche privati, poi – nei Novanta – lampi improvvisi tra una serie di algide comparsate di lusso, spesso in costume. Infine, nel nuovo Millennio, la “negatività” della sua immagine filmica sembra stemperarsi in una sorta di (auto)distruzione elegiaca.
Inizia giovanissima, nelle serie televisive dei Settanta, e le sue fattezze sottilmente inquietanti, il suo sguardo ricco d’ira appena frenata dalla vitalità della giovinezza la spingono verso ruoli di disadattata: buona esemplificazione può essere il “nero” Gli occhi dello sconosciuto (Eyes of a Stranger, 1981, regia di Ken Wiederhorn). Ma un primo risultato di rilievo lo raggiunge in Fuori di testa (Fast Times at Ridgemont High, 1982, regia di Amy Heckerling), pellicola-rivelazione di una nobile nidiata di giovani “maledetti” dell’era Reagan: con lei recitano Sean Penn, Judge Reinhold, Phoebe Cates, Forest Whitaker, James Russo, Eric Stoltz, Anthony Edwards e Nicolas Coppola (più noto come Nicolas Cage). Dopo quel film sfrontato verranno numerosi “racconti crudeli”: tra gli altri, il truculento L’amore e il sangue (Flesh & Blood, 1985, regia di Paul Verhoeven), il terrifico The Hitcher – La lunga strada della paura (The Hitcher, 1986, regia di Robert Harmon), l’oscuro I delitti della palude (Sister, Sister, 1987, regia di Bill Condon). Il binomio “sangue e sesso” che attraversa questi titoli – in modi e contesti diversi – si decanta ed astrae in tre pellicole che segnano questo primo periodo della carriera della Leigh, ovvero Ultima fermata Brooklyn (Letzte Ausfahrt Brooklyn o Last Exit to Brooklyn, 1989, regia di Ulrich Edel, lo stesso di Christiane F.), dove rappresenta una tragica caricatura da strada delle dive degli anni Cinquanta, tra disordini sociali e difficili identità sessuali; poi Miami Blues (Miami Blues, 1990, regia di George Armitage e produzione di Jonathan Demme), in cui si cala nella parte di una prostituta ed infine Effetto allucinante (Rush, 1991, regia di Lili Fini Zanuck), dove è una poliziotta infiltrata inghiottita in un incubo senza fine di droga e morte. Specialmente queste ultime due sono pellicole di grande valore, distanti da ogni schematizzazione, che si avvalgono della presenza ambigua della Leigh, sempre in bilico tra l’innocenza evocata dal fisico di ragazzina – ben diversa dalle bellezze diversamente appariscenti di Kathleen Turner e Diane Lane, per restare in un similare ambito generazionale – e uno sguardo tutt’altro che rassicurante, che ben esprime le tensioni sotterranee di un decennio cinematografico all’apparenza tonico e traslucido.
Successivamente, la carriera dell’attrice prenderà strade diversificate e non sempre principali: se la via crucis dello scavo interiore porta a dei risultati non di rado eccellenti – come in Inserzione pericolosa (Single White Female, 1992, del sottovalutato Barbet Schroeder), ritratto nero di una psicopatica con il complesso della gemella, o il coprodotto e cosceneggiato con la madre Barbara Turner Georgia (Georgia, 1995, di Ulu Grosbard), storia di una cantante che del mito del rock subirà solo i lati più mediocremente degradanti, mentre la sorella diventa una stella del country; ma merita una menzione anche lo splendido L’ ultima eclissi (Dolores Claiborne, 1995, regia di Taylor Hackford e storia ricavata dal romanzo di Stephen King), dove interpreta la figlia tormentata dell’enigmatica Dolores Claiborne (una bravissima Kathy Bates) – sono meno fortunate le prove quando viene scelta per ruoli “in costume”. Infatti, il taglio non consueto del viso e un naturale, impressionante mimetismo portano la Leigh ad interpretare con efficacia le donne nervose ed indipendenti degli anni Venti e Trenta e quelle più consapevoli degli anni Cinquanta: l’intellettuale disinvolta, dispersiva e disperata di Mrs. Parker e il circolo vizioso (Mrs. Parker and the Vicious Circle, 1994, del dissipatore Alan Rudolph), la giornalista di Mister Hula Hoop (The Hudsucker Proxy, 1994, dei glaciali citazionisti Joel ed Ethan Coen) e la nevrotica, ipercinetica ed innamorata Blondie in Kansas City (Kansas City, 1996, del jazzofilo Robert Altman). Queste pellicole – che almeno nell’ultimo caso propongono all’attrice ruoli di buono spessore e di discreta fortuna – portano però la carriera della Leigh verso una china pericolosa fatta di manierismi – lampanti nell’ottocentesco Washington Square (Washington Square, 1997, di Agnieszka Holland) – e ruoli da sostanziale caratterista, come in Segreti (A Thousand Acres, 1997, di Jocelyn Moorhouse, dove comunque può lavorare con un suo mito di sempre, l’attore Jason Robards… capito da dove ha preso uno dei suoi nomi?) o nel più tardo, algido Era mio padre (The Road to Perdition, 2002, di Sam Mendes).
Così, quasi come il non troppo amato padre Vic Morrow (attore dai tratti naturalmente sociopatici, presto invischiato in pellicole di serie B, C e Z e nell’anonimato del piccolo schermo, morto tragicamente nei primi anni Ottanta), Jennifer aumenta l’attività televisiva (mai totalmente abbandonata), in alcuni casi di un certo pregio – ricordiamo una fiction sui “danni collaterali” riportati dai reduci della prima guerra del Golfo – e partecipa a film non legati ad Hollywood come Il Re E’ Vivo (Dogme # 4 – The King Is Alive, 2000, del nordico Kristian Levring) e Decisione Rapida (The Quickie, 2001, del russo Sergej Bodrov), tentando anche un esordio da (co)regista apprezzato da nessuno con The Anniversary Party (The Anniversary Party, 2001, insieme al compagno Alan Cumming).
In generale, sono registi non statunitensi quelli che le offrono le migliori occasioni in questi ultimi cinque anni: David Cronenberg la trasforma nella stravagante creatrice di un gioco di realtà virtuale fin troppo connesso ai corpi umani in eXistenZ (eXistenZ, 1999), mentre Jane Campion le affida la dolente parte della sorella sbandata di Meg Ryan in In The Cut (In the Cut, 2004), quasi un manifesto/omaggio all’arte stessa della Leigh, dissipata e insieme ricca di tensioni alla bellezza ed alla purezza. Come anche nell’inquietante L’Uomo Senza Sonno (The Machinist, 2004) dell’emergente compatriota Brad Anderson, i segni dell’età rendono l’attrice più pacata nell’esprimere il dolore ed il rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato, portandola ad un sicuro “standard” interpretativo e rendendola uno dei volti più credibili del cinema tutto.