Di Sergio Sparapani
Bob Dylan, Chronicles volume 1
Trad. di Alessandro Carrera
Feltrinelli, 2004, 18,00 euro
‘Chronicles’ non è un’autobiografia tradizionale e non può essere giudicata come un’autobiografia tradizionale. A scanso d’equivoci, Dylan non è interessato a raccontarci la sua parabola né a rispondere ai mille interrogativi sul suo conto. “Chronicles Volume 1” è fatto di frammenti esistenziali – privi di ordine cronologico – frutto di salti temporali e meccanismi mentali noti solo al suo autore. Autore che, dal suo Olimpo, non avrebbe mai scritto un saggio del tipo “nacqui a Duluth, nel Minnesota, il…”, né avrebbe svelato quelle banali curiosità legate al “celebre” incidente in moto del ’66, oppure ammesso la sua paternità sull’iniziazione dei fab four alla maria… Tutto troppo semplice e scontato. No, Zimmie tanto per cambiare, spiazza i suoi fan rivelando, tra le altre cose, che se non avesse ascoltato “Jenny dei pirati” non sarebbe mai nata Mr. Tambourine e A Hard Rain e To Ramona… Per la cronaca, “Jenny dei pirati” di Weill e Brecht da “L’opera da tre soldi”, debitamente smontata nella forma e nella struttura, avrebbe svelato al Nostro i segreti della moderna canzone d’autore. Così come, alla faccia di tanti critici militanti, Dylan rivaluta e inserisce tra le sue fonti di ispirazione gruppi considerati “leggerini” come i Brothers Four o artisti popolari come Neil Sedaka (lo nota acutamente Franco Fabbri su l’Unità dell’11 gennaio).
Anche per questo, il primo saggio dell’”autobiografia” dylaniana è un gran bel libro, scritto – e tradotto – piuttosto bene, talvolta affascinante, specialmente quando il vate descrive il suo mondo. Perché – e anche questa è una mezza sorpresa – l’autore della canzone del secolo (Like A Rolling Stone secondo un recente sondaggio di…Rolling Stone), si rivela uno straordinario osservatore della realtà che lo circonda – dal Grenwich Village all’inizio dei sixties a New Orleans nel 1989 – e dei mille personaggi su cui si è imbattuto. Mentre i riflettori erano già indirizzati su di lui, Bob con curiosità osservava, ammirava e rimirava. Da Joan Baez (“Lontana e inaccessibile, era una Cleopatra in un palazzo italiano”), a Woody Guthrie morente nel suo letto d’ospedale, fino ai tanti sapienti ritratti di folksinger, come Ramblin’ Jack Elliott o il suo amico Dave Van Ronk, ai produttori e magnati (John Hammond e Albert Grossmann), fino a Daniel Lanois. Da quelli che ha conosciuto a coloro che lo hanno guidato (Rimbaud e Robert Johnson solo per citarne due). C’è persino un ritratto di John Wayne. E uno del lottatore George il Fenomeno… Insomma, c’è tanta musica, parecchia letteratura (sì, Bob sembra proprio uno colto…), persino cinema, e poca – o per nulla – politica.
E lui? Ovviamente c’è anche Lui, talvolta ironico tal’altra riflessivo, sempre appassionato nel voler ridimensionare il suo mito. In questo senso si spiega “Jenny dei pirati” cui dedica svariate pagine… Sapevamo poi ovviamente del suo fuggire dalla fama e dai luoghi comuni, sapevamo del disprezzo provato nei confronti dei fan più assillanti, ma il candore con cui esalta i valori familiari – una staccionata bianca e un giardino con le rose da innaffiare e i marmocchi da accudire – lascia leggermente spiazzati. Già, spiazzati. E così maledetto Zimmie hai vinto anche questa volta…
Attendiamo con impazienza gli altri due volumi della trilogia nella certezza che Lui continuerà comunque a giocare a nascondino. E a noi va bene così.