Storia Di Musica E Poesia Dagli Anni Novanta.
Di Alessandro Gentili
I Massimo Volume hanno segnato profondamente il rock alternativo italiano degli anni ’90, rappresentando uno dei gruppi più innovativi e capaci di reinterpretare in una chiave stilistica fortemente personale le sonorità provenienti da oltreoceano, partendo dal grunge e dal noise per arrivare ai confini del post rock.
Chitarre sporche ma mai dedite al rumore libero vero e proprio, piuttosto impegnate in giri ipnotici reiterati meccanicamente e scanditi dai ritmi spigolosi della batteria; e sopra la poesia.
Sì, perchè in realtà Emidio Clementi, familiarmente Mimì, non è un cantante, ma un narratore di storie, uno scrittore di appunti di vita all’apparenza insignificanti ma forse proprio per questo più veri e vivi.
E non è un caso che già durante i Massimo Volume, e poi dopo lo scioglimento, una delle attività principali di Mimì sia stata la scrittura, ultimo in ordine di arrivo “L’Ultimo Dio” (costante l’ossessione del fantasma di Emanuel Carnevali), e che anche col suo gruppo attuale, El Muniria, il nostro si ostini a non cantare ma a parlare, benchè siano cambiate le coordinate musicali che circondano la sua voce.
E nei Massimo Volume hanno militato molti personaggi di spicco del nostro panorama musicale, primo tra tutti Umberto Palazzo, che della band è stato uno dei padri fondatori in quel di Bologna, e la cui presenza si può sentire fortemente nel primo album, “Stanze”, del 1993 (Underground Records); Egle Sommacal, (fino a poco fa impegnato con gli italo-francesi Ulan Bator) uno dei chitarristi più bravi e particolari dello scorso decennio, la cui impronta sullo stile dei Massimo Volume è di dimensioni pari a quelle della voce di Clementi; e ancora Vittoria Burattini alla batteria, che ancora oggi (e ancor di più forse) possiamo apprezzare nei Franklin Delano, tra i migliori gruppi attualmente in circolazione dentro e fuori lo stivale.
Come già detto il gruppo si forma nei primi anni ’90 a Bologna, e l’esordio, seppur acerbo, contiene le avvisaglie delle grandi potenzialità di questi giovani: “Stanze“ è un contenitore di strutture sonore strappate e lacerate, una sorta di grunge-noise destrutturato e ricostruito con un meticoloso lavoro di taglia e incolla; un senso di mancanza e insoddisfazione continui, perennemente in bilico tra implosioni ed esplosioni d’angoscia; ma soprattutto quel cantato che cantato non è (ancora si percepiscono lievi accenni di linee melodiche vocali, grazie soprattutto ai contrappunti vocali di Vittoria), inimitabile marchio di fabbrica, pura letteratura: canzoni come dipinti di un mondo insensato e ottuso, storie di emarginazione, incomprensione e incomunicabilità, spesso vissute sulla propria pelle, raccontate con una voce disillusa e per questo ancora più vera, sincera e penetrante, che basta sentirla una volta per imprimerla indelebilmente nel cervello.
Certamente ‘Stanze’ non arriva alle vette raggiunte dai suoi due successori, ma sono diversi comunque gli episodi più che degni di nota, come la tirata Ronald Thomas E Io, la secca e disarmante Alessandro, l’ipnotica Veduta Dallo Spazio; e ancora Stanze Vuote, che stilla disperazione malata da tutti i pori, e Cinque Strade, che risente molto della tecnica chitarristica propria di Umberto Palazzo (prima che formasse i suoi Santo Niente, altro fondamentale astro del capoluogo emiliano).
E intanto il nome della band comincia a circolare, le esibizioni si moltiplicano e la Wea non tarda a metterli sotto contratto; ma bisogna aspettare il 1995 perchè veda la luce quello che è considerato il loro capolavoro assoluto: “Lungo i Bordi“, la massima espressione dei Massimo Volume, con storie memorabili, ossessive e malinconiche, ricordi d’infanzia e di innocenza perduta, la continua mancanza di un senso, l’odio e l’indifferenza come condizioni innate nell’animo umano, l’amicizia che non è altro che un treno di passaggio. “Lungo i Bordi” è una mostra di impressionismo espressionistico, ricco com’è di storie che provocano shock all’ascoltatore semplicemente grazie alla rappresentazione della realtà nuda e cruda.
Tra i tanti menzioniamo Il Primo Dio, brano esemplare delle cifre stilistiche della band, nel quale Clementi porge il suo omaggio all’arte di Emanuel Carnevali (scrittore italiano emigrato in America e costretto ai più umili lavori per sopravvivere) e di Arthur Rimbaud, Il Tempo Scorre Lungo I Bordi, amaro momento di lucidità che illumina la nostra impotenza nei confronti della vita, e ancora i ricordi di Inverno ’85, gli incubi di La Notte Dell’11 Ottobre, il lato crudo dell’amore in Meglio Di Uno Specchio: imprescindible in ogni senso.
Due anni dopo cambio etichetta col passaggio alla Mescal, nuovo disco e nuovo capolavoro: “Da Qui”.
Un gioiello più oscuro del predecessore ma altrettanto toccante, in cui il pessimismo, che in “Lungo i Bordi” era latente, affiora in superficie e ricopre gli animi con un senso di ineluttabile debolezza di fronte al succedersi degli eventi.
Manciuria (L’Ultimo John Ford) è l’immobilità fatta musica, con quei suoni pastosi che scandiscono la recita di Mimì: “E’ la scena in cui lei entra in sala da pranzo, ubriaca: si siede, senza aspettare la fine della preghiera, senza salutare nessuno”; e poi c’è La Città Morta, a mio parere il più bel pezzo mai scritto dai Massimo Volume, puoi sentirlo mille volte e ogni volta lo stesso brivido, un testo che insegna più di cento libri sull’illusione della vita.
“Da Qui” forse mostra già un adagiarsi del gruppo su una formula che due anni prima aveva mostrato i propri frutti, ma a ben vedere le differenze con “Lungo I Bordi” sono diverse: le tinte sono più calde e scure, i suoni più pastosi e diluiti, in molti tratti privi di quella secchezza matematica posseduta in precedenza, e anche i testi probabilmente spaziano di più rispetto al piglio autobiografico assunto in passato.
I Massimo Volume li ho conosciuti proprio con questo disco e, a costo di beccarmi mille critiche, resta il mio preferito.
E dopo l’apice il declino: nel 1999 esce l’ultimo episodio della band bolognese: “Club Privè”, prodotto da Manuel Agnelli, tenta un passo in avanti rispetto al passato, con l’intrusione di sprazzi tendenti al jazz e con Mimì che prova a cantare davvero stavolta, finendo però soltanto per diluire l’unicità dei Massimo Volume nel mare del rock italiano di fine millennio: un buon disco ma niente a che vedere con i precedenti lavori, quelli che hanno fatto e faranno storia: pezzi come Il Giorno Nasce Stanco o Avevi Ragione non fanno che ripetere sonorità e pesieri già espressi senza altro aggiungervi, e pochi sono gli episodi degni di nota.
Dopo uno stanco trascinarsi in giro per i palchi d’Italia, una buona colonna sonora per il film di Infascelli “Almost Blue” (2000) e vari progetti extramusicali, nel 2002 avviene lo scioglimento: e forse è meglio così, fermarsi prima di arrivare alla rovina e accettare a buon cuore la fine.
Quello che dovevano dire l’avevano già detto, e non è cosa da poco.
DISCOGRAFIA MASSIMO VOLUME
– Stanze (Underground, 1993)
– Lungo i Bordi (Wea, 1995)
– Da Qui (Mescal, 1997)
– Club Privè (Mescal, 1999)
BIBLIOGRAFIA EMIDIO CLEMENTI
– Gara di resistenza (Gamberetti, 1997)
– Il tempo di prima (Derive Approdi, 1999)
– La notte del pratello (Fazi, 2001)
– L’ultimo dio (Fazi, 2004)