Musiche Per Il 21° Secolo

 

 

 

 

 

 

 

Rubrica Di Musica Classica Contemporanea di Filippo Focosi

filippofocosi@libero.it

Negli ultimi anni ha preso sempre più piede il luogo comune che afferma: “la musica è una, non ha senso dividerla in generi, l’unica distinzione praticabile è tra musica bella e musica brutta”. Pur concordando con quest’ultima frase, credo invece che la distinzione tra generi musicali (riconducibili fondamentalmente a tre: pop, jazz, classica) sia tutt’altro che superata: basti pensare al fatto che il pubblico del pop non sempre coincide con quello del jazz, e questo si distingue a sua volta da quello della classica. Esistono inoltre delle differenze linguistiche specifiche che confermano la legittimità di tale suddivisione. L’obiettivo che questa rubrica si pone è di dar conto del sottogenere della musica classica contemporanea, ovvero della musica scritta da compositori viventi (o recentemente scomparsi) che si rifanno alle tecniche e al linguaggio della tradizione classica occidentale (da Bach a Stravinsky), arricchendolo però con apporti stilistici personali o con suggestioni provenienti da altri linguaggi musicali (quali il rock, il jazz, il blues, il folk, etc…). La divisione della musica in generi non esclude infatti la possibilità di una interazione creativa tra gli stessi: la contaminazione, quando è prodotta da un genuino spirito di sintesi e non da una banale sovrapposizione di stili eterogenei, costituisce una delle cifre caratteristiche della cultura postmoderna e merita quindi una particolare attenzione. Qualche spazio sarà inoltre riservato a quei maestri (più o meno riconosciuti) del Novecento la cui opera, in quanto partecipe delle avanguardie culturali del XX secolo, rimane un riferimento imprescindibile per la modernità. In ciò risiede il senso ultimo del titolo della rubrica, “Musiche per il 21° secolo”: nella volontà, cioè, di descrivere la realtà variegata e multiforme della musica contemporanea, le cui radici affondano nel secolo scorso ma le cui ramificazioni si estendono fino ai nostri giorni e ci portano ad immaginare quella che sarà la musica del futuro.

 

Michael Daugherty ‘Philadelphia Stories/Ufo’ (Naxos 2004)
Michael Daugherty si è oramai conquistato la fama di cantore della vita e della cultura popolare americana, dalla quale trae ispirazione (evidente soprattutto nei titoli: la musica, come insegna Stravinsky, rimane principalmente un linguaggio astratto ed in quanto tale è incapace di esprimere alcunché di concreto) per tutte le sue composizioni. Così, mentre in UFO (1999) la percussionista Evelyn Glennie (lei non ha davvero bisogno di presentazione) evoca suoni e rumori che sembrano provenire da un altro pianeta, in Philadelphia Stories (2001) l’orchestra richiama alla memoria differenti situazioni legate alla città americana, ora marciando ai ritmi frenetici della strada, ora risuonando come un gigantesco insieme di campane, omaggiando in tal modo il celebre direttore Stokowski.
Si può discutere se l’idea di far corrispondere ad ogni brano un’icona della cultura popolare americana non sia tanto il frutto di un reale rispecchiamento della musica con questa, quanto invece un’astuta ma forzata trovata “pubblicitaria” (anche la pubblicità, d’altronde, è parte integrante della società americana, come Andy Wharol insegna). Al di là della superficie rimane comunque una scrittura solida, ricca di humor, in definitiva godibile.
Michael Daugherty, PHILADELPHIA STORIESUFO, www.naxos.com, Voto  6/10

 

 

Philip Glass ‘Saxophone’ (Orange Mountain Music 2002)
Philip Glass è stato spesso accusato di aver riciclato le proprie musiche in diversi contesti (colonne sonore, teatro, concerti). L’accusa non è priva di fondamento: tuttavia ogni tanto il compositore americano dà vita a delle creazioni genuinamente originali, e quando questo accade il risultato è eccellente. In “Saxophone”, CD dedicato alla produzione di Glass per sassofono (strumento a lui da sempre molto caro), spicca lo splendido Concerto for Saxophone Quartet, eseguito nella versione per solo quartetto di sassofoni. Il Concerto è un ottimo esempio della seconda fase compositiva di Glass, caratterizzata da una minore (rispetto ai lavori giovanili) ossessione per la ripetizione e da un’evidente vena melodica tendente alla malinconia. Qui infatti l’ispirazione melodica è particolarmente felice e, se nei movimenti lenti sembra rievocare atmosfere da primo Novecento francese (soprattutto Ravel e Satie), nei movimenti veloci emerge la natura grintosa del sax e con essa il richiamo ad un suono jazzistico davvero inedito per il compositore americano. Di grande fascino sono anche le 13 Melodies for solo Saxophone, nelle quali la già citata vena melodica emerge in tutta la sua semplicità e purezza.
Sicuramente il miglior Glass degli ultimi anni.
Philp Glass, SAXOPHONE, www.orangemountainmusic.com,  Voto 10/10

 

 

Giya Kancheli ‘Diplipito’ (ECM Records 2004)
Nella musica di Kancheli il silenzio ha una funzione costruttiva. In Valse, Boston (per pianoforte ed orchestra d’archi, 1996) disegni melodici di schubertiana memoria sono sovente interrotti da pause improvvise e prolungate proprio nel momento di maggiore slancio emotivo, ricadendo così in un’atmosfera sospesa, nostalgica, senza tempo. Del valzer di cui si parla nel titolo non rimane che un motivo di danza appena accennato, ricordo offuscato di un ballo che forse non abbiamo avuto il piacere di fare, o di un episodio che non abbiamo realmente vissuto, ma solo sognato di vivere. In Diplipito (per voce, violoncello e orchestra, 1997) il silenzio è soprattutto interiore: la musica sembra qui condurci in territori altrimenti inaccessibili dell’anima ed ogni episodio musicale suona coma una rivelazione – sebbene indecifrabile, come indecifrabile ma affascinante è la comparsa inaspettata, verso la fine del brano, di delicati passaggi affidati ai soli pianoforte, chitarra e bongo.
Giya Kancheli, DIPLIPITO, www.ecmrecords.com,  Voto 10/10

 

 

Steve Reich ‘Tehillim/The Desert Music’ (Cantaloupe Music 2002)
Il giovanissimo Alarm Will Sound and Ossia ci fornisce in questo CD una versione cristallina e gioiosa di Tehillim, brano del 1981 per il quale Reich si è ispirato alla cantillazione ebraica e che ha segnato una nuova fase nella carriera del compositore americano. Il rinnovato interesse di Reich per l’introduzione di repentini cambiamenti armonici e per la cantabilità melodica, al fianco delle ormai note pulsazioni ritmiche di matrice africana, sperimentato in Tehillim, è alla base anche di The Desert Music, composizione risalente al 1984 qui eseguita per la prima volta nella recente trascrizione per orchestra da camera; versione quest’ultima decisamente più nitida ed agile dell’originale per grande orchestra.
Come Reich stesso ha dichiarato, “this recording… is an absolute knockout!”.
Steve Reich, TEHILLIMTHE DESERT MUSIC, www.cantaloupemusic.com,  Voto 10/10

 

 

Michael Torke ‘Rapture’ (Naxos 2002)
“Un brutale battito di percussioni può evocare una violenza tellurica, ma quando si presenta in maniera organizzata ed insistente esso può provocare un effetto ritualistico, ed innescare una sorta di rapimento che unisce l’elemento religioso con quello erotico”. E’ questo concetto di rapimento, così descritto dal compositore americano Michael Torke, a governare Rapture (2001), concerto per percussione ed orchestra in cui l’orchestra segue a qualche battuta di distanza i ritmi scanditi dal solista, disegnando così una sorta di processo musicale continuo e ondulatorio, ora serrato e travolgente, ora delicato e sensuale. Ottima la prova di Colin Currie, il quale suona con grande sicurezza ogni tipo di strumento a percussione (intonato e non).
Michael Torke, RAPTURE, www.naxos.com , Voto 7/10