(improvvisatore Involontario/Wide 2005)
Francesco Cusa è un eccentrico musicista emerso nel panorama jazzistico indipendente, italiano e non, dal lontano 1986. Le sue origini lo vedono arrivare dalle solari tonalità della Sicilia con un mood che svela dei codici personali dediti con passione alla musica afro-americana, nella sua accezione avant: le timbriche raggiunte nel corso di questo tempo spingono Cusa nelle vicinanze di buona fetta del jazz formulato nella Downtown newyorkese: John Zorn, Tim Berne, Sam Shalabi, Elliot Sharp, qualche nome utile da predisporre accanto le angolature ricercate dal batterista / compositore e co-fondatore del(lo storico) collettivo bolognese Bassesfere.
Dietro le idee che accompagnano la nascita della sigla Skrunch si espone il punto più alto, complesso e libero da ogni formalismo accademico, conseguito sin’ora da Cusa nell’intricato abito indossato da compositore.
Cosa si agita dentro “Psicopatologia Del Serial Killer” è una materia ibrida: un sound molleggiante che unisce con sapienza e buongusto la scrittura arcuata ed elettrica di Tim Berne ed il rock contaminato di Frank Zappa, la veloce struttura noir à la “Spillane” del primo Zorn con il jazz vellutato di Miles ed infine, orna a tratti il ‘tortuoso’ complesso, con un pizzico velato di ponderata esasperazione Jazz-Core (il roboante frastuono terminale di Nonsense, nelle cui cavità bordate noise al basso vengono inferte con perizia chirurgica).
Alla creazione di questo viaggio, avviato verso il calare del millennio scorso, hanno preso parte le chitarre di Carlo Natoli e Paolo Sorge, il sax robusto di Gaetano Santoro, il trombone di Tony Cattano e naturalmente la batteria di Francesco.
La storia elaborata narra le fantomatiche gesta di un serial killer che centra a pieno le proprie vittime leggendo estratti scritti da J.D. Salinger.
E infatti, ecco donare la loro presenza quattro attori diversi con le proprie voci, coinvolte nel recitare a turno i pensieri che frullano e comprimono di nervosismo il cervello ‘malato’ del mostro e le proprie vittime…
L’ambientazione noir del disco evapora in abbondanza ma con facilità si scorge una traiettoria parallela, mirata a convertire battute taglienti e crudeli in spensierati e fulminei attimi di sarcastica e scherzosa ironia.
Oscuri pensieri nascosti nella mente che lentamente prendono vita e, soprattutto, ritmo… jazz.
Un ritmo che si solidifica con l’elettronica nera pece ed introversa di j.d.h., dove una voce recitante rantola nel buio e con fatica riesce a sfuggire dalle strette prese di una lenta e paranoica agonia. In particolare dall’attacco immediatamente successivo di Biatta, diviene stuzzicante denotare il fugace cambio di registro: esplosioni pindariche che contaminano l’atmosfera con scampoli di jazz, una punta di ombroso funky, un’ambientazione surreale ed un montaggio (sonoro) cinematografico.
Dentro tale materia navigano non pochi ricordi che spingono dalla parte dei piemontesi Anatrofobia e nei primi esperimenti avant di Robert Wyatt.
Un’altra uscita che conferma la Improvvisatore Involontario tra le impro-label più attente e bizzarre del momento.
Voto: 7
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