Discus Latest (improv) release-s

L’articolo che segue incentra lo sguardo sulle ultime uscite improv / elettro-acustiche dell’etichetta di Sheffiled, la Discus di Martin Archer: enfant prodige dell’improvvisata radicale britannica.

Di Sergio Eletto no ®

elettosergio@hotmail.com

Quelle che seguono sono delle recensioni che incentrano lo sguardo sulle ultime prove improv / elettro-acustiche / sperimentali prodotte e distribuite dalla Discus: etichetta radicale ed indipendente, sita in quel di Sheffield, che persegue orgogliosamente lo spirito libero, anarchico ed iconoclasta racchiuso nell’improvvisazione free inglese. Il suo Deus Ex Machina è incarnato nella figura di Martin Archer: storico musicista sperimentatore che nel corso di una carriera, durata trent’anni, ha cimentato il suo talento, stringendo rapporti con i nomi più importanti del settore e facendo conoscere (anche attraverso la Discus) nuove leve, da tenere sott’occhio, del circuito musicale improvvisato.
Basta citare la firma di Masayo Asahara, compositrice dall’enorme talento, che aggrega nelle proprie note tradizione contemporanea alla Stockhausen e un indole per l’elettronica, al quanto moderna, legata alla microwave e alle frequenze dei Pan Sonic e Noto.

Combat Astronomy
“The Dematerialised Passenger”

Combat Astronomysono James Hugget (basso, chitarra, programmi ed elettronica) Mick Beck (fagotto) Charlie Collins (flauto) ed in particolare Martin Archer (clarinetto basso, violino, electronics, alto sax e sopranino) da cui parte l’iniziativa di dar respiro e cuore ai Combat Astronomy: power band che trita in sol colpo jazz, elettronica cibernetica, sottili linee doom ed una gran voglia di ripercorrere sentieri tracciati un tempo dai Techno Animal e dai mitici Godflesh (almeno in parte).
La peculiarità del gruppo risiede nell’estremizzare in toni acerbi e (fumosamente) hardcore / noise i ritmi afro-americani del jazz. Non vi è niente che lascia presagire alla scuola moderna di Chicago e a nomi come Ken Vadermak: nei C.A. vige qualcosa di roboante che potrebbe indurre anche a disparati combi italiani.
Qualche nome a caso?
Beh…Zu, Bz Bz Bzeu, Fretto Misto, Tanake: così, per farsi più facilmente un’idea, comunque, parziale rispetto l’intrinseca originalità del gruppo di Archer.
Su Archer non credo occorrano presentazioni, diversi anni che il suo nome ripercorre il jet set sperimentale sui generis britannico: partendo dal primo gruppo formato nel 1983, i Bass Tone Trap, ai disparati progetti solisti elaborati negli anni, per approdare agli Ask, ultimo duo in ordine di tempo condiviso con il chitarrista John Jasnoch, in cui ci imbatteremo più avanti in merito ad un’altra uscita Discus.
Tornando al leit motiv del discorso, i C.A. disegnano una prova dai tratti ‘sanguinanti’ che erge i propri tentacoli attraverso spiragli di puro noise-core, confuso da grezzi cazzotti dell’elettronica e da bordate di basso sulla stregua di un graffiante e metallico Justin Broadrick (Greedy Angels fa al caso giusto). Con la successiva Time Stamp a comparire sono odori, seppur soffusi, di provenienza jazzistica: lo lascia intendere con prontezza l’attacco iniziale e la chiusura riservata dal piano, decisamente placido, se confrontato al clarinetto affamato di contesti ‘brutalmente’ free.
Il fagotto ed i suoi rimbrotti cupi ingravidano l’entità di Body Of Incus, mentre Collapsing Runway flirta con il rock industriale, svolazzando in territori nascosti dalla maschera dei Cabaret Voltaire. Atmosfera para-doom in Orion dove a farsi strada vi è una similitudine con i cugini del drone-metal, Sunn O))): una famiglia di feedback e lunghi drones, pesanti e claustrofobici, volteggiano in ripetizione continua e si vanno a confrontare con ingressi violenti e fulminei dei fiati. L’opera scivola giù senza troppe complicazioni, prestando particolare attenzione ad aperture ritmiche à la Techno Animal, durante tutta Sulphur (Mercurated), Bad Phaser e Serpents; queste ultime due, dal taglio minimali e lancinante, condividono la chiusura con velate inserzioni ritmiche electro/ drum and bass .
Tradizione e Modernità vengono rese e rappresentate in maniera cruda: free jazz, industrial, un pizzico di techno contaminano alla base le azioni di “The Dematerialised Passenger, facendocelo assaporare tutto di un botto, senza neanche sbadigliare per un istante.

Derek Bailey – Mick Beck – Paul Hession
“Meanwhile, back in Sheffield”

Urticante al punto giusto, ad ondate minutamente mordace e come sempre, slegato da rigide tracce e da volubili melodie. La chitarra ferrigna di Derek Bailey torna a colpire, dopo una produzione sterminata da decenni di lavoro intenso, arrivando ancora una volta a stupire le – nostre – orecchie per le ottime combinazioni ‘free’ cucinante. Un’operazione che si potrebbe definire nostalgica, considerato l’incipit principale, fondato sul legame affettivo del chitarrista avant con Sheffield, città natale del chitarrista (ormai abbondantemente settantenne) e luogo di residenza, inoltre, della stessa Discus.
Se si prova a tradurre il titolo, “Meanwhile, Back In Sheffield”, sbuca fuori qualcosa di simile alla frase ‘nel frattempo, ritornai a Sheffield’ e quindi andiamo a scoprire, così, in via definitiva tutte le carte che hanno reso e dato vita alla riunione in causa. Incontro che vede ideatori principali nella progettazione Mich Beck (sax tenore, fagotto e fischietti) e Paul Hassion (batteria e percussioni) i quali convocano personalmente il ‘maestro’ per una fugace session ‘a tre’, serbando a Bailey (chitarra elettrica) l’onorata facoltà del protagonista… o meglio del carro trainante di tutto il leit motiv.
Luogo del misfatto, un piccolo pub (il Red Deer per l’esattezza) sito nella città inglese, dove la registrazione è avvenuta per mano di Chris Trent, amico di vecchia data dei musicisti che già, in diverse manifestazioni, aveva prestato il suo mix a diversi progetti di marca Discus-siana.
Tre brani, tra brandelli di feroce improvvisazione radicale; quello di apertura è montato su tempi ampi, che sfiorano la modica cifra dei quasi quaranta minuti di improvvisazione totale e robusta, il secondo sospeso su decisioni ‘fulminee’, prese nella stretta morse degli otto minuti, l’ultimo aggrappato ad una soluzione di mezzo.
Non vengono riservate molte informazioni riguardo il ‘modo di agire’, lasciando supporre che a parte qualche sporadica prova, il materiale creato nell’agosto nel 2004 sia di gran lunga (tutto) improvvisato… dall’inizio alla fine!!!

 

Ask
“The Formulary Of Curses”

A sei anni di distanza da “Disconnected Bliss” (cd di debutto licenziato sempre per Discus) tornano a far parlare di se gli Ask e la propria indole ‘astrattista’. Formazione ‘a due’, nata dalla fusione di Archer con John Jasnoch, ricompaiono sulla scena con “The Formulary of Curses”. Il cd è un continuo raggruppamento di omaggi offerti nei riguardi della musica e dei musicisti più significativi (per il duo) riguardo la musica del secolo più curioso che ci sia: il ricercato e contraddittorio ‘900. Un secolo in cui la sperimentazione ha toccato espressioni dissimili: dalla musica dodecafonica al jazz completamente improvvisato, dalla rock di Canterbury, alla musica elettronica…
Quella degli Ask, di incentrare l’attenzione di un disco verso determinati personaggi è una filosofia che li contraddistingue sin da inizio carriera: ricordiamoci che nel precedente cd veniva messa in esame la materia sonora di Richard Pinhas, chitarrista-eroe della cult band francese seventeen, Heldon.
Mentre ora a venire rispolverati, con l’originalità della musica estemporanea, sono il rock psichedelico dei Soft Machine, Edward Vesala ed il free jazz di Roscoe Mitchell dell’Art Ensemble Of Chicago.
Un altro tassello d’importanza nella strutturazione nel duo è l’aspetto collaborativo, presente con preponderanza nell’assetto base di entrambi: la coppia non ama fare le cose in solitudine e alla occorrenza si lascia aiutare da un manipolo di musicisti del circuito improv d’oltremanica. Compaiono e scompaiono dietro i titoli dei brani i nomi di Simon H. Fell, Rob Dainton, Derek Saw, Simon Pugsley, l’immancabile Charlie Collins…
Questi solo per citare i più famosi che messi insieme ai due protagonisti compongono un armamentario strumentale vastissimo, costituito da: chitarra elettrica, acustica a dodici corde, ud, mandolino, lap steel guitar, tenor banjo, filed recordings, sopranino e alto sax, clarinetto basso, registratori, tastiere, electronics, processing, contrabbasso, sax baritono, flauto e clarinetto, filicorno, trombone e tromba, corno e chi più ne ha, più ne metta.
Il cammino, non c’è che dire, con tutta questa materia strumentale si rende particolarmente ricco e variegato, forse anche un po’ troppo; i suoni testati e ricercati, anche se ispirati a realtà musicali oramai storiche, tendono ad avvalersi di movenze e tratti non propriamente comuni. Uno spirito anti convenzionale, a tratti anche un tantino ostico, consegna alle tredici sessioni complessive una (palpabile appena) confusione, dovuta all’eccessiva mistura di stili dissimili che non sempre si combinano tra loro alla perfezione… e con una certa scioltezza.
Azioni sonore lisergiche, sporcate da puliscoli di micro wave, inondano Watercourse e proseguono per i tracciati di Mirny; in entrambi i casi scoppia l’‘ora di memoria’ dei Soft Machine di Wyatt & Company.
Song fot Edward Vesala non necessita di ulteriori presentazioni, come del resto Song For Roscoe Mitchell: astratta e surreale la prima, orchestrale, funky e (stranamente) pomposa la seconda.

Masayo Asahara
“Saint Catherine Torment”

Dopo aver tastato scenari prettamente europei, emigriamo per un pò verso Oriente, imbattendoci nella stuzzicante verve ‘manipolatoria’ di Masayo Asahara. Compositrice dal taglio minimale e spartano, esploratrice libera di suoni prettamente contemporanei, la Asahara condivide da anni una stretta collaborazione con Mr Archer; per casa Discus sono stati prodotti già un paio di lavori e proprio questo “Saint Catherine Torment”segue filologica mente (e idealmente) il lavoro della compositrice, scritto nel 1974 e ristampato di recente, “Saint Agnes Fountain”. L’ensemble attuale cambia sia nella composizione numerica (in questo caso minore) quanto nella scelta degli strumenti – e delle relative tecniche – da predisporre in campo per l’occasione. Nel caso passato trovavamo un folto numero di persone: possiamo ricordare Michio Foschida al bass trombone, bass guitar e composizione, Robun Dantomi alla batteria, Denzo Sawamatsu alla tromba e Meiji Benko al sax tenore; Martin Archer in quel contesto, più che prendere parte all’orkestra, si dedicava alla supervisione della ristampa: come dicevamo Masayo si dedicò a questo progetto sin dagli albori degli anni ’70, scontrandosi piacevolmente, ed interpretando a modo suo un folto bagaglio di generi e tendenze. Le espressioni che amava di più sondare la giovane talent scout giapponese erano quelle del minimalismo americano, prediligendo le forme ascetiche e reiterate di La Monte Young e Terry Riley; ma all’interno dei propri brani permeavano, inoltre, anche gli spettri psichedelici di quegli anni, la progressive music sperimentale dei Soft Machine, il Kraut Rock, la musica cosmica tedesca, l’improvvisazione radicale e la musica contemporanea à la Stockhausen / Cage. Vi era anche una differenza nell’aspetto (multi) strumentale, praticato allora dalla Asahara, la quale s’intratteneva con l’uso combinato di organo (per l’elaborazione di caldi drones, sax tenore, shortwaves e varie diavolerie elettroniche. In “Saint Catherine Torment”, al contrario, lo spazio personale ritagliato nella strumentazione si limita a restare nell’ambito dell’editaggio finale e della composizione in generale. A cacciare dalla custodie i propri strumenti saranno solo Archer con il violectronic (una versione auto-costruita di un violino preparato, posizionato orizzontalmente) e Philip Thomas con un piano preparato che ricorda molto il grande Cage. Il brano portante di tutto il lavoro è unico, ma risulta suddiviso in trentadue brani-segmenti, ognuno dalla durata esatta di due minuti. Lo scopo principale è stato quello di rielaborare in fase di editaggio finale i suoni-improvvisati creati/offerti dai due performer citati, secondo il tocco minimale e rigido di Masayo.Ciò che ne deriva alle orecchie è una passeggiata di emozioni ondivage che ergono i battenti su filoni prettamente (ed autenticamente) micro-wave. Una frequenza rada, cammina ad intermittenza e nei primi assaggi richiama molto il pan sonico mood di Mika Vaino e Noto. Un’unica frequenza che nel cammino varia di mutazione e forma, andando ad incontrare subito i suoni, duri, veloci e rimbombanti del piano. Diventa evidente, dunque, che più i minuti del displayer scorrono in avanti, maggiore diventa il volume del suono: la materia si gonfia e rigonfia lentamente, esplodendo a colpi di piano disarmonico e corde di un violino, il quale tutto ricorda, meno che la propria identità (o suono) originaria (in piccolissimi frangenti pare richiamare il sound di un sax baritono). Sciorinano nell’atmosfera frequenza radenti dal movimento ellittico, si riaffaccia lo spettro di StockHausen e della musica contemporanea… secca, aspra, iconoclasta. Va detto, infatti, che proprio questa composizione viene dedicata dalla Masayo, sia alla musica del maestro tedesco, sia alla composizione di Galina Ustvolskaya.
Pennellate di suono duro e difficile che riescono a tenere l’orecchio ben attento e distratto per tutti i sessanta minuti e oltre della suite.

Martin Archer
“Heritage and Ringtones”

Con l’entrata nel lettore di “Heritage and Ringtones” si può anche gridare al piccolo miracolo: Archer disegna alla perfezione una mistura equilibrata di differenti sonorità: sorvola dal jazz (ECM style) nordico, glaciale e caldo, all’improv-radicale, rigorosamente britannica e sulla scia di Bailey, Parker e Oxley, all’elettronica, tratteggiata anche da momenti piuttosto languidi. Buona parte dei suoni nati per l’album provengono dalle mani sregolate di Archer che diletta la sua trentennale esperienza di musicista, svolazzando dall’uso di tastiere, processori, drum programs a quello di sopranino e alto sax, clarinetto basso e Bb clarinet. Per il resto, compaiono a turno una sequela di nomi altamente importanti del suono radicale inglese e non. Uno dei contributi maggiori è versato dal percussionista Ingar Zach che dona ad Archer la possibilità di (ri)lavorare una parte di suoni dell’archivio personale e quelli inerenti all’ultimo solo, “Visiting Ants”, uscito per la Sofa music tra il 2004 e 2005. Per il resto incontriamo l’arpa preparata e riduzionista di Rhodri Davies, il contrabbasso di Simon H.Fell (mitico membro dei VHF, la chitarra acustica di Tim Cole, la voce suadente di Julie Cole, gli effetti elettronici di Masayo Asahara e altri samples offerti amichevolmente da Chris Meloche. Un bel gruppo, non c’è che dire, questo che circonda e si cimenta con un programma di brani, divisi tra cover importanti e composizioni personali di Martin. In pole position troviamo una versione di Come Sunday del Duca (Ellinghton) che rispecchia molto il groove raffinato e spirituale, di marca jazzistica, del migliore John Surman: difatti colpisce la melodia principale, affidata senza indugio, ad un sax delicato e fragile. Divise e posizionate a diverse altezze, troviamo una serie di composizioni numerate, indicate con la sigla Ringtone, divise in quattro parti. Rappresentano i momenti più sperimentali dell’intero lotto e rispecchiano maggiormente la metrica compositiva odierna di Archer. Meravigliosa la chitarra folk di Tim Cole, lanciata con pensierosa malinconia in un dialogo pacato con elettroniche deviate, piccole interferenze e lontani overdubs. Rinasce per pochi minuti lo spirito americano dei Pillow, la chitarra, o meglio il modo di imbracciare un’acustica di Ben Vida, rivive nella mani di Cole e nella mente di Archer. La cover del cd, un disegno raffigurante un’affollata scena di caccia alla volpe, potrebbe marcare il piglio autenticamente britannico di Archer che, in mezzo a tanta modernità, trova il tempo (e una gran voglia) per riproporre sotto vesta sperimentali un antico traditional inglese: Let No Man Steal Your Time con ospita la voce al sapore celtico di Julie Cole che staglia il proprio canto su manipolazioni elettroniche, loop trasversali e frequenza radiofoniche e/o vocali distorte. Tra gli attimi iù eccitanti e commoventi.
Vale la pena di segnalare in chiusura That Sheffield Sound, un saggio di bravura tutta elettronica, con protagonista una morbida oscillazione di suono che pare ricavata (e ricordare) il carattere obliquo del theremin.

Grew Trio *
“It’s Morning”

Alcune firme importanti della critica musicale internazionale non hanno lesinato nel porre complimenti di notevole spessore sulla free-form jazzistica impeccabile ‘militata’ dal Grew Trio: ovvero Stephen Grew – il fondatore – al piano, Mick Beck con sax tenore, fagotto e fischietti e Philip Marks alla batteria ed alle percussioni.
I voti eretti sembrano andare tra parentesi in direzione della label e proprio da Daniel Spider di Jazzwise veniamo a conoscenza di come goda di ottima stima e fama una realtà musicale a noi totalmente sconosciuta. Spider suppone che in un ipotetico futuro quando la storia dell’improvvisazione radicale britannica sarà terminata (speriamo mai) i testi che narreranno la vita del movimento free, metteranno la Discus e l’attività di musicisti come quella del Grew trio, tra i capitoli più significativi e trascinanti di questo lungo tragitto.
E noi, dopo aver teso l’orecchio con senso di stupore allo scoppiettante “It’s Morning”, non possiamo che approvare le tesi del giornalista e raffrontare le irruenti note sciolte del trio alle gesta eroiche e liberatorie di grandi firme, quali Tony Oxley, Derek Bailey etc., e per emigrare dall’U.K. con stelle lucenti come il disarticolato Han Bennink e il seminale Albert Ayler. Il lavoro viene registrato nel freddo inverno del 2005 e non fonda nessuno dei suoi imput vicino ad atteggiamenti e/o movenze accademiche: a tratti si presenta appuntito ed aggressivo, come solo Ayler seppe fare nel jazz, in altri frangenti sfiora situazioni che lambiscono stati offuscati di ‘umorismo’, in altri ancora giunge a rasentare ambienti sonori contemporanei; e sotto questo aspetto lascia molto intendere la scuola del piano – Monk-iano quanto Cage-ano – inoltrata da Stephen Grew. Tutte le sostanze qui richiamate, possono essere facilmente reperite attraverso il cammino di un unico brano: la title track, ad esempio, che pone la sua essenza come un organismo a ‘tre punte’, un triangolo astratto dove dissonanza, calore, ritmo e freddezza si scontrano con fare piacevolmente orgiastico. Cercate di carpire l’anima avventurosa di questi musicisti che mediante la tradizione -afro-americana – formano dei dialoghi intrisi di modernità e privi di ogni – finto – perbenismo. Fatevi corteggiare dalle sghembe improvvisazioni di Good Form and a Bit of Ankst, dai rantoli del suo sax, dalla (a)ritmica scomposta, dal piano a-melodico; non voltate le spalle ai gemiti, al godimento del creare suoni ‘scacciato’ dalle bocche degli stessi protagonisti che incitano il ritmo in quel colpo al cuore che è Let’s Go; fatevi calpestare dai suoni di un piano preparato, ‘fottutamente’ minimale come in To the Woods, oppure buttatevi con tutta la forza dentro i rombi acuti di un fagotto scontroso che domina gli animi di Getting Hungry, For Stalactites
Gli amanti dell’improv-jazz cerchino di non lasciarsi sfuggire “It’s Morning” dalle mani; per essere sicuri di reperirlo basta contattare direttamente la Discus stessa, facendo magari un giro sul proprio sito.
Non siate restii.

* La recensione di “It’s Morning”è stata pubblicata già tempo fa come recensione ‘propria’ ed è presente nell’archivio cumulativo di Kathodik.

Discus home page: www.discus-music.co.uk

Articolo A Cura Di Sergio Eletto no ®

elettosergio@hotmail.com