(Mosz 2005)
Florian Kmet e Stefan Németh hanno realizzato uno dei più
bei dischi dell’anno.
In punta di piedi e senza troppo clamore.
Kmet dei due è il meno famoso, trascorsi rock ed un presente avant/impro
chitarristico speso in collaborazioni con Wolfgang Mitterer, Gunter
Schneider, Max Nagl, Franz Hautzinger, Martin Brandlmayr;
Ludwig Bekic.
Di Németh (label boss della Mosz) credo sia sufficiente citare il suo far parte
dei Radian ed il poco men che splendido “Die Instabilität der Symmetrie”
del 2003 in compagnia di Dafeldecker/Brandlmayr/Siewert.
Un suono placido ed onirico (con spine sparse profumate) che si colloca nel mezzo
del guado acustico/digitale, trentasette minuti e poco più
assolutamente sublimi che riconciliano con la vita anche il più sconsolato
degli ascoltatori.
Strutture granulari elettroniche solcate da chitarre azzurrissime tanto prossime
al blues quanto allo sragionamento cinematografico (dalle parti di Paris,Texas
più o meno, e sempre ad una visione rarefatta e sofferta torniamo; proprio
come nel blues.).
Degli scatti angolari noise che inglobano sia le nubi dronate chitarristiche
dei My Bloody Valentine che le stecche secche dei Neubauten.
Un groviglio di chitarre in arpeggio (spesso) oscuro e sottilmente dissonante
che si apre su distese ambient solcate da feedback leggeri ed impalpabili; una
delizia.
Sei combinazioni esplorative che il duo con imperturbata tranquillità porta
avanti sino al culmine quasi erotico di Chuuk.
13 minuti di nuvole cariche di elettricità che si dissolvono
all’orizzonte lasciandosi dietro un’eco filamentosa di feedback discendenti.
Tormentoso sogno post-coitale.
Assoluto amore a prima vista.
Voto: 8
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