Bologna, 6 giugno, Estragon.
Di Paolo Rossi
Se oggigiorno includere l’aggettivo “seminale” in un articolo che parli di musica risulta essere démodé, allora mi dichiaro senza problemi fuori dal coro. Eh sì, perché nessun altro attributo calzerebbe a pennello al pari di quello in questione, soprattutto se riferito ad una band come gli Shellac. Quantità e qualità a vagonate. Preceduto dai nostrani Three Second Kiss (un’esibizione scialba, la loro) il power-trio americano guidato dall’evergreen Steve Albini ha offerto un tiratissimo show di due ore e rotti, soddisfacendo appieno la variegata audience presente al Palanordino. Fugaziani, slintiani, don caballeriani e nirvaniani tutti insieme appassionatamente. Un piccolo passo indietro: il bravo produttore-musicista chicagoano, già Big Black e Rapeman (hai detto niente!) dà il la all’avventura con gli Shellac pretendendo a bordo Bob Weston e Scott Stanford Trainer, due personaggi misconosciuti dell’underground statunitense, habitat naturale di Albini. Dal ’94 ad oggi tre album in curriculum, sintomo di una cura maniacale per l’autogestione in primis, dopodiché per la produzione e l’aspetto promozionale (il vinile ad esempio precede sempre il compact disc). Per questo i loro lavori e sortite live risultano essere quasi sempre un evento. Tornando al presente: look da perito informatico per Albini e scenografia assente, evidentemente è l’essenzialità il marchio di fabbrica dell’universo Shellac. Punk-noise, post-hardcore e slow-core uniti sotto un unico strainflazionato stendardo, quello della limitata e limitante categorizzazione “post-rock” . Per me è sempre stato più semplice, piuttosto che dar fiato alle trombe, far parlare il cuore e, come in questo caso, lo stomaco. Insomma, una grandiosa sezione ritmica à la Jesus Lizard (il batterista ha suonato per tutta la durata della performance col culo delle bacchette) e una chitarra da incubo che quando non emette urla sferraglianti geme melodie malinconico-catartiche da sincope. I brani, perlopiù tratti da “At Action Park” e “1000 Hurts” si sono susseguiti senza pause: Prayer to God , 1000 Hurts , Crow , Song of the Minerals , A Minute e My Black Ass le più rappresentative. Due ore di musica splendida, sofferta e ironico-cinica (grazie anche alla disponibilità allo scherzo dei tre musicisti, dall’inizio alla fine un tutt’uno col pubblico nel vero senso della parola) : -Hey, look at me, I’m a plane! – , gridava Albini ad un certo punto dell’esibizione. Già, Steve, sei un fottutissimo aeroplano. E il bello è che voli più in alto di tutti.
Voto 10