Boris ‘Pink’

(Southern Lord/Wide 2006)

Finalmente, riesco durante il caldo insopportabile di questi giorni a mettere le mani sull’ultima fatica degli ‘oscuri’ Boris, “Pink”. Il trio giapponese, all’incirca dal ’94, ha seminato attraverso la sua (vasta) discografia un nuovo modo di intendere e suonare lo sludge (più o meno, una costola rallentata, narcolettica e dilatata del math rock) accostandolo a sonorità intrise di stoner e di Melvins, di suoni ‘oceanici’ alla Isis e di ‘noizu’ à la Merzbow, di Acid Mother Temple e di Earth, di drone-metal alla Sunn o))) e di tanto altro ancora.
Quindi mi riesce piuttosto difficile apprezzare in pieno le qualità (un pò leggerine) contenute dentro quest’ultimo full lenght. Un gruppo firmatario di capolavori del suono dilatato, quali “Absolutego”, “Amplifier Worship”, “Mabuta No Ura” e di collaborazioni pregiate con Haino Keiji (da cui scaturì il bellissimo “Black: Implication Flooding”) e col già citato Merzbow (nei 60 minuti allucinogeni di “Sun Baked Snow Cave”) non può uscire indenne da una critica coscienziosa, dopo aver assaporato (amaramente) le undici tracce intestatarie di “Pink”. I tre – Wata, Takeshi e Atsuo – hanno sempre mostrato di prediligere una totale accuratezza nel dipingere i propri dischi, dedicando ad ognuno un capitolo (del suono) ben preciso: lo stoner per “Heavy Rocks”, i climi surreali per “Sun Baked…”, le (iper)calate nel doom profondo per “Akuma No Uta” e via dicendo.
Una caratteristica, questa, che in tal caso non avviene in maniera preponderante, facendo di “Pink” una sorte di compendio (o Bignami) del suono Boris, sgravato e privo (purtroppo) degli orpelli più sperimentali e ‘inconsueti’ del gruppo. Forse, adesso, dopo una decina abbondante di produzioni discografiche questi menestrelli dello sludge-stoner avvicineranno a se un maggior numero di affezionati delle indie: troppi i punti che accostano adesso i Boris a fantasticherie luminose di casa nei My Bloody Valentine e li allontanano dai schizzi dark di Mr Haino e King Buzzo. Lo si intuisce sin dall’attacco di Farewell dove le corde della chitarra inneggiano melodie sognanti e cristalline, prive di elementi ‘foschi’ e ricche di situazioni al confine con lo shoegazing. Sarà la title track a riportare in auge (per chi avesse già perso le speranza) climi moderati ma intrisi comunque di irruenza stoner. I momenti migliori si contano sul palmo di una mano e comprendono il garage di Woman on the Screen, le rientranze doom di Blackout e lo speed-rock minimale di Electric con all’interno una rincarata dose di bordate blues-core. Per il resto, tutti attimi che discostano alla grande i Boris da quel mondo ‘tenebroso’ che li aveva fatti conoscere ad un pubblico ristretto, ma certamente di nicchia.

Voto: 6

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Autore: mariacenci@alice.it