(Constellation/Southern Record/Wide 2006)
I Lullabye Arkestra, ovvero come muoversi tra tremila generi senza afferrarne nessuno. Come perdersi in un mare di spunti metal, garage, soul, punk senza trovare il bandolo della matassa; come realizzare un disco intrigante e sfiancante, originale e ridicolo, intelligente e volgare al tempo stesso.
La formazione canadese, il cui nucleo è composto da Justin Small (batteria) e Katia Taylor (basso), esplora con questo “Ampgrave” la possibilità di un’ibridazione tra Detroit e la Tamla, tra Morricone e i Metallica, ma fallisce. E la colpa di questo fallimento è da attribuirsi alla loro evidente incapacità di coagulare gli spunti sonori di cui si nutrono le otto tracce del disco in architetture stabili e definite: gli ingredienti della ricetta non si fondono, rimangono ciascuno nel proprio cantuccio e ciò che viene fuori dal lavoro dei musicisti è una specie di mostro sonoro senza né capo ne’coda.
Prendiamo la prima traccia, Unite!: parte con un’elegante sviolinata che si innesta su un tappeto sonoro fatto di elettronica fluttuante, organo da chiesa e tromba morriconiana per poi scivolare all’improvviso in un incubo di urla assortite sorretto da una ritmica galoppante, un po’ come se i System Of a Down eseguissero la colonna sonora di uno degli spaghetti-western di Sergio Leone. Tutto molto interessante, certo, ma, terminata la traccia, di questo divertito (c’è da scommetterci) pastiche di stampo progressive non rimane proprio nulla, se non l’irritante sensazione di essere stati appena presi in giro. Le cose non migliorano affatto con la successiva All I Can Give Ya, che altro non è se non un lento soul strillato da una banda di invasati.
Sin da queste prime due tracce, inoltre, emerge come la produzione del disco ammicchi a certe soluzioni sporche che si possono rintracciare sui dischi dei White Stripes che, più di Stooges e Mc5, sembrano essere una delle fonti d’ispirazione del progetto. Ma se nel caso del duo composto da Jack e Meg White la scarsa pulizia dei suoni è parte integrante di un esplicito progetto di recupero di una tradizione musicale (quella dei tardi sixties), qui pare essere piuttosto un mezzuccio per nascondere la scarsa competenza tecnica dei musicisti.
Il quarto pezzo, Y’Make Me Shake, è un garage-soul estremamente esemplificativo dei loro intenti (e, purtroppo, delle loro capacità); meglio fanno i due quando si spingono in territori marcatamente metal: il trittico finale (Nation Of Two, Bulldozer Of Love e Ass Worhsip), praticamente una suite, alterna nefandezze trash, cadenze da cingolato sabbathiane, torrido garage-punk e fiati rhythm and blues. Centrati su riff trascinanti, sono per certi versi i brani più diretti e meno pretenziosi della raccolta: forse non è un caso che siano i migliori.
Tirando le somme, “Ampgrave” è un’opera che promette diecimila cose diverse, tutte meravigliose, ma non ne realizza neppure una. Non che il progetto sia stupido o banale, tutt’altro: ciò che qui è mancato ai Lullabye Arkestra è la lucidità necessaria per domare la follia creativa e condurre in porto questo genere di bizzarrie. Peccato. Rimandati a settembre.
Voto: 5
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