(Columbia 2006)
I “tempi moderni” di Bob Dylan sono tutt’altro che moderni. Rimandano alla musica dei padri, allo swing, al blues-rock, alle ballad in tre quarti – tutto materiale che il menestrello di Masters Of War ha più volte rielaborato nel corso della sua carriera, plasmandolo a proprio piacimento e ricavandone pezzi che ormai fanno parte dell’immaginario collettivo.
Ma perché quel titolo-omaggio a Chaplin? Per autoironia, forse; per sottolineare, con il sorriso sulle labbra, tutto l’anacronismo del disco, il suo essere palesemente fuori posto in un epoca di pop plastificato o di insincera epica rock. O magari si tratta proprio di un commento sarcastico rivolto agli idolatri della modernità a tutti i costi, ai modaioli, quelli per cui “nuovo è bello” a priori. Uno scherzo dunque.
Ma un album di Dylan non è mai uno scherzo. E’ una cosa seria, maledettamente seria. Soprattutto se contiene un pezzo come Workingman’s Blues #2, una ballad-capolavoro in cui rifà capolino l’anima del folk-singer di protesta, in assoluto tra le cose migliori del nostro; o ancora un walzer malinconico come When The Deal Goes Down, con un testo-riflessione sulla mortalità, la tragicità dell’esistenza e “l’oscurità dei sentieri” della vita. Per non parlare di Rollin’ And Tumblin’, un omaggio al grande Muddy Waters e di Spirit On The Water uno swing rilassato, cantato con la solita voce di cartavetro. Più che un disco, insomma, si ha l’impressione di fronteggiare un viaggio a ritroso nel tempo, nella memoria, venato di malinconia e di amarezza: fulminanti, al riguardo, alcuni versi della conclusiva Ain’t Talkin’: “L’intero mondo è colmo di speculazione/ Quel vasto mondo che dicono tondo/ Strapperanno via la tua mente dalla contemplazione/ Danzeranno sulle tue disgrazie quando sarai a terra”.
Intendiamoci: “Modern Times” non è un capolavoro. In alcuni momenti Dylan appare così rilassato da sembrare svagato, quasi svogliato; la band, poi, si limita all’ordinaria amministrazione, non supportando adeguatamente mr. Zimmerman mentre declama le proprie visioni. Nonostante ciò, però, questo disco è tutt’altro che da buttar via. Anche se guarda al passato, Dylan non suona mai “vecchio”: la sua scrittura è così old-fashioned da apparire confinata in una dimensione tutta sua, che non ha più nulla a che spartire con le classificazioni “passato”, “presente” e “futuro” di noi comuni mortali. Un disco di maniera? Forse. Ma se la maniera è questa…
Voto: 7
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