Dal freddo della Svezia lo spirito infuocato di Albert Ayler. Con sede in Stoccolma, la Ayler Records documenta e tramanda ai posteri le esibizioni che si svolgono in città. Due CD dal palco del Glenn Miller Café: Hamid Drake & Assif Tsahar ‘Live at Glenn Miller Café, Soul Bodies Vol.2’, Ayler Records, 2006 e Surd ‘Live at Glenn Miller Café’, Ayler Records, 2004.
Di Alfio Castorina
Con sede in Stoccolma, la Ayler Records documenta e tramanda ai posteri le esibizioni che si svolgono in città.
Due CD dal palco del Glenn Miller Café:
Hamid Drake & Assif Tsahar ‘Live at Glenn Miller Café, Soul Bodies Vol.2’, Ayler Records, 2006
Surd ‘Live at Glenn Miller Café’, Ayler Records, 2004
“Trane was the father, Sanders the son, and Ayler the Holy Ghost”. Non si finisce mai di venerare e pregare lo spirito di Albert Ayler, alla cui memoria questa piccola etichetta svedese è titolata. L’avventura nasce dalla grande passione per il jazz del fondatore Jan Ström che, per citare le sue parole, “alcuni giocano a golf, io spendo i miei soldi realizzando dischi free jazz”. Il Glenn Miller Cafè di Stoccolma, attorno a cui l’etichetta ruota, lo immagino un locale molto piccolo e fumoso, tanto freddo fuori e caldo rovente dentro, con pochi appassionati a seguirne gli eventi. È meritevole allora fissare per sempre e rendere disponibili ad una audience più vasta i concerti migliori che li si tengono e che, sbirciando nel catalogo, hanno visto sul palco diversi nomi noti (Arthur Doyle, Sunny Murray, Peter Brötzmann…) ed altri sicuramente ne seguiranno. Dunque long live and prosper.
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‘Live at Glenn Miller Cafè, Soul Bodies Vol. 2’, documenta il secondo incontro in Svezia tra il sax tenore dell’israeliano Assif Tsahar e l’infinita, sterminata fantasia ritmica di Hamid Drake alla batteria (di cui mi piace ricordare l’incredibile trio assieme a Peter Brötzmann e William Parker). Performance tra il rovente e l’afflato lirico, influenzata sicuramente dalla recente scomparsa del bassista Peter Kowald a cui il disco è idealmente dedicato e la cui Mother and Father viene qui omaggiata. Aprono i 15 minuti di Warriors of Stillness, che sicuramente in questo disco non sono i due musicisti all’opera, tutta costruita attorno ad un semplice giro di sax continuamente ripreso, allungato, mutato, attorno al quale gira la batteria di Drake in un continuo danzare impregnato di ritmi tropicali, principalmente basato sul procedere incessante ma misuratissimo del rullante. A metà brano la batteria esplode in un assolo in continuo levare, si consuma in uno sfarfallio di piatti, per poi lasciare spazio al sax, che con immutato aplomb riprende il tema portante. Ancora più energetica la successiva Praying Mantis, con Tsahar perso in inni ad Archie Sheep, e la batteria tutta un vibrante puntellamento ai piatti, mai invasiva, e perfetta nel dare al sax tutto lo spazio desiderabile. Scivola invece nella malinconia Grasp The Bird’s Tail, probabile omaggio a Parker, dove la sezione ritmica è meravigliosamente contenuta e accennata, ma al contempo così ricca e mobile, nell’accompagnare gli accorati struggimenti del sax. Grancassa e charleston a manetta ci portano al minuto scarso del motivo popolare di Saint Thomas, uno dei cavalli di battaglia di Sonny Rollins. Ottima esibizione, molto ispirata per entrambi i musicisti. Inutile ripetere quanto sia pazzesca l’esecuzione di Drake nel corso del disco. Immagino condotta senza il benché minimo sforzo, come fosse la cosa più normale di questo mondo.
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Ancora l’ombra di grandi personaggi passati dall’altra parte, in questo caso il sassofonista Steve Lacy, pochi giorni prima di questa registrazione, per l’esibizione al Glenn Miller Cafè di SURD, sigla che raccoglie David Stackenäs alla chitarra, Frederik Nordström al sax, Filip Augustson al basso e Thomas Strønen alla batteria. E proprio con l’omaggio a Lacy inizia il cd, proponendo la cover di 38, tratta dall’album “The Crust”. Il tema dissonante del sax e gli ustionanti flashes della chitarra di Stackenäs, forse la spezia più pregiata del disco, a caratterizzare gran parte del brano. Introdotta da un meditabondo giro di basso, parte la bellissima 3 6 4 U, ancora in gran parte magnificata dalla chitarra, con quelle note così strappate via, schizzate ma anche morbide, tra blues e funk, disperse nell’aria come sbuffate d’incenso. Veramente magnifica. Dopo che il brano va avanti per circa 5-6 minuti, sono però il sax e la sezione ritmica a prendere il sopravvento, a loro ed al loro duellare il palcoscenico. Molto più blueseggiante, Hello Paul (a quanto pare dedicata ad un cantante pop svedese, tale Paul Paljett), con Stackenäs inizialmente sornione nel procedere all’unisono con il sax per poi furbescamente inziare a sgomitare e aprirsi un suo spazio, prima con fare suadente poi sempre più irruento. Tributo ai Portishead, di cui Nordström è fan sfegatato, in Head P: batteria in punta di piedi e basso profondissimo, in un muoversi carico di tristezza e bellezza dai colori autunnali, bagnati e spenti, e un dolcissimo dialogare tra sax e chitarra. Il motivo del sax mi ricorda qualcosa, ma non riesco ad afferrarlo, come un vecchio ricordo che sfugge alla mente. Pause, arresti, ripartenze e gran equilibrio in Bye, Bye Teddy, unico brano accreditato a tutti i componenti del gruppo, con momenti di furore molto rockeggianti e poco ortodossi. Lontano da quello che può essere il classico disco di free jazz, SURD sconfina, e di molto, dal recinto, per abbracciare anche rock, blues, pop in un amalgama in più momenti veramente irresistibile. Consigliato anche a chi del jazz non sa che farsene. Come si sarà capito, abbastanza da urlo l’altezzosa bellezza della chitarra.
Sette pieno ad entrambi.