Luminal: Io sono Demon e la luna è mia madre.
Ultimo atto della “Trilogia dello spavento” di Isabella Santacroce: Luminal è il barbiturico che culla le anime maledette di Demon e Davi, diciottenni legate da un tacito patto di sangue in cui il Diavolo fa da terzo incomodo: vivono solo di notte come due vampiri, viaggiano tra città che rivelano il loro lato più oscuro e vizioso, Zurigo, Berlino e Amburgo, attratte da gotici locali (Siouxsie and the Banshees, Tuxedomoon alcuni dei nomi dai chiari riferimenti) in cui sesso estremo, sadomasochismo e spinta all’autodistruzione sono all’ordine del giorno, e tentano di saziare la propria fame di esistenza in tutti i modi, senza mai raggiungere appagamento.Tacchi a spillo, corti e strettissimi abiti in latex nero contrastano col funereo candore della pelle: sicure di sè, altezzose, belle come due dee e sprezzanti dell’inutile feccia che le circonda, Demon e Davi sono in realtà macerate dentro da un male di vivere che ha forse origine da un’adolescenza di solitudine fatta di madri troppo assenti, poi sostituite da Lune, e non ha fine, così come capita a molti dei personaggi (quasi tutti dai nomi che iniziano per D, non un caso) che si perdono tra le pagine appesi a lampadari o stesi in vasche coperte da tinte rosso scuro. E Demon e Davi non possono sfuggire a questa crudele logica.
L’autodistruzione e il rifiuto di un mondo spesso sentito estraneo, temi introdotti già nella dedica iniziale, una lunga lista di noti morti suicidi (Cobain, Curtis, Majakovskij, Plath, Mishima, M.Monroe e moltissimi altri ancora), sono i pilastri portanti del libro, un libro estremo e dissacrante sia nelle tematiche che nello stile: pornografia, alto romanticismo (leggi Novalis) e dark rock si fondono in un insieme unico, in cui anche le devastanti descrizioni di tremende pratiche anali e orge di massa hanno il loro lirismo, un lirismo negativo e denso come il buio; e ancora vendette di una cattiveria estrema, suicidi che non si chiariscono ma che contribuiscono a rendere il nero ancora più nero, accompagnato dal bianco della pelle, silenzioso presagio di morte, e da laghi purpurei che sgorgano da vene recise.
A una prima, superficiale lettura sembra quasi che la Santacroce miri solamente allo shock, all’impatto emozionale, cosa che spinge ad inquadrare la sua scrittura nel già vasto filone del pulp; in realtà c’è molto di più, il suo è una sorta di romanticismo-punk, o “Nevroromanticismo” (come il nome del movimento formato da lei e altri nel 1997): un ritmo frenetico che sa di chimica e plastica, un ondeggiare tra le parole che spesso cattura e trasporta (“C’è questo specchio davanti che mi guarda sdoppiandomi e una doppia Demon pelle di fata e una doppia Demon pelle di fata che mangia Luminal sotto il tremolio delle lampadine impiccate la mia vita corre srotolandosi a terra si perde inondando”), poetiche inversioni di nomi, predicati e attributi che finiscono per produrre architettoniche circonvoluzioni dalla musicalità e dal lirismo estremi; musicalità accentuata anche da una punteggiatura per chilometri assente, ma a tratti fitta come nebbia, e da frasi che si incontrano più e più volte nell’arco del romanzo, distaccate o immerse nel resto della narrazione, come veri e propri ritornelli. Da notare poi l’assenza di veri e propri dialoghi, sostituiti da brevi alternarsi di monologhi tra esseri umani chiusi nel bozzolo del proprio ego.
Un libro sicuramente coraggioso in cui la Santacroce mette tutta se stessa in gioco, così estremo che infastidisce e fa male al cuore; un mix di narrativa, poesia e numerosi altri linguaggi mediatici molto artificioso, il più delle volte capace di attrarre il lettore, altre di allontanarlo quando la sensazione del gioco all’eccesso si fa troppo esplicita; iperbolico “Luminal” e iperbolica la Santacroce, maledetta tra finzione e realtà.