Bologna, 25-26 gennaio, Palazzo Re Enzo.
Di Paolo Rossi
Il Netmage è ormai divenuto un must della scena culturale bolognese, un festival in cui immagini e musica si fondono sino a creare nello spettatore sensazioni nuove (fastidiose o piacevoli che siano) , raramente percepibili in sala di proiezione o di fronte al palcoscenico. Dunque dal 2000 a questa parte l’incipit del nuovo anno è sempre coinciso con una nuova edizione della rassegna audiovisiva: anticipazione di “waves” future o semplicemente passerella che privilegia le tendenze affermatesi nei 365 giorni addietro. Non eccezionale, a dir la verità, quest’ultimo Netmage (mentre più che buono è stato il riscontro di pubblico, nonostante lamentele varie per il costo del biglietto d’ingresso): sebbene in campi come il montaggio si siano viste cose eccellenti, dal lato musicale non sempre immagini e composizioni (molto spesso improvvisazioni) hanno dato luogo a quel crossover e, perché no, fusione d’intenti che di solito ci si aspetta e ci si deve aspettare da tali performances. Interessante il progetto Uh!, dei nostrani Kinkaleri: in un ampio salone invaso da luci a bassa intensità la musica (quasi sempre drones al limite della sopportazione con qualche intermezzo à la Boards Of Canada) ha agito da supporto agli improvvisati attori in un’esplosione di fisicità e nel tentativo di -…assecondare il dipiegarsi del tempo… – . Molto belle anche le foto del giapponese Aki Onda, frammenti di vita quotidiana sostenute da glitches e feedback chitarristico (molto Sunn’O ))) ) di Oren Ambarchi e Alan Licht. A seguire quello che a mio avviso è stato l’evento più valido della prima giornata: lo spettacolo Something Like Seeing In The Dark del duo John Duncan (ultimamente al lavoro coi Pan Sonic) /Leif Elggren. Uno wall of sound ritmato da beats quasi impercettibili a fare da sfondo, o meglio da bastone da passeggio allo svedese, recitante la parte di un cieco la cui ombra viene proiettata sui quattro schermi (allestiti nella medievale sala grande) al posto del solito sciabordìo d’immagini. In conclusione la performance ideata da David Lynch, Enrico Ghezzi, Asja Bettin ed Emiliano Montanari, Eyerophany, con musiche di Badalamenti e Trentemoller (che a fine serata si prodigherà in un apprezzabile live minimal techno/house) : sugli schermi epifanie di vecchi films di Lynch, l’ultimo Inland Empire a rotazione continua, un live-act la cui tematica di fondo è il sesso come pulsione torbida e primitiva (come si evince da tante opere del cineasta americano) e le riprese in diretta di Ghezzi, che si fa mezzo, insieme alla sua telecamera, della coscienza collettiva del pubblico. La scena simbolo: Ghezzi che ancora vortica tra la folla sempre più sparuta e che si ferma ad inquadrare l’immondizia rovistandovi (a volte non si capisce, o perlomeno non capisco, se ci faccia o ci sia o se semplicemente sia mosso da una genuina curiosità fanciullesca). Il secondo giorno si apre con H2O, una composizione nata dall’incontro tra un gruppo di designers, programmatori e videomakers (Studio Brutus e Citrullo Int.) raccolti sotto l’egida elettro-digitale della “crew” di Martuscello, Taxonomy. Forse l’unico spettacolo insieme a quello degli americani Atlas e Peck che sia riuscito a far interagire molto bene audio e video: le musiche live a fare da ritmo a coloratissimi e vivaci organismi somiglianti a batteri e microscopiche meduse. Subito dopo il live set delle norvegesi Kjersti Sunland e Anne Bang-Steinsvik, Monstrous Little Women: una rassegna di primi piani rielaborati dal vivo in cui protagonisti sono i visi sconvolti dal panico e dalla disperazione delle attrici di films come L’Esorcista, Poltergeist e Alien IV. Le colonne sonore originali mixate live insieme a brani tratti dall’album ‘Syklubb Fra Haelvete’, collaborazione tra il gruppo noise Fe-mail e gli improvvisatori SPUNK. Terzo evento della seconda giornata il documentario Siberian Fieldworks #10, del duo Carlos Casas-Sebastien Escofet: il primo pluripremiato in vari festivals (tra cui quello torinese del 2004) , il secondo già al lavoro con gente del calibro di Glass e Kronos Quartet. Ok l’intento di concentrarsi su immagini che debbano offrire un’ “esperienza transculturale” (lande innevate e pressoché prive di vita, un paio di capanne con relativi pescatori), ok anche la musica propinata, che per commentare luoghi del genere non potrebbe essere differente ma l’esplosione del pubblicoa fine performance, subito dopo la proiezione di un’aurora boreale sostenuta da tappetoni ambient è parsa scontatissima. Penultimo lavoro quello degli statunitensi Charles Atlas e Chris Peck, The Intensity Police Are Working My Last Gay Nerve: immagini stravolte e modificate egregiamente in diretta da Atlas con l’appoggio dell’irrequieto electro-noise di Peck. Intanto la sala si svuota ma non se ne capisce il motivo: eh sì, perché il live di Milanese (al secolo Stephen Whetman, inglese, già Warp e Planet Mu) dovrebbe essere un mini-evento: una delle prime esibizioni di un dubstepper (passatemi il termine) nella nostra penisola. Vocine soul distorte, echi e riverberi puramente dub metallizzati e resi marziani, ritmiche che sfondano il muro del grime per andare a cozzare con grooves apocalittici. E per assurdo da atmosfere così alienanti ne scaturiscono una ballabilità ed un coinvolgimento a livelli altissimi. In fin dei conti un’edizione un po’ (troppo) sottotono: sorprese quasi inesistenti e livello estetico-emozionale viaggiante sui midranges. Dunque, nonostante la qualità sia stata abbastanza buona, nel tirare le somme ci si accorge che dalle performances non si sono tratte grosse indicazioni per il futuro di queste sempre interessantissime applicazioni del mondo audiovisivo
Voto 6
Links: