Di Marco Loprete
– Mr. Lynch, ci può spiegare la presenza dei conigli nel film?
– No, non posso spiegarlo.
E’ in questo scambio di battute tra David Lynch ed un intervistatore, avvenuto nel corso della conferenza stampa di presentazione di INLAND EMPIRE al Festival del cinema di Venezia, che può essere racchiuso il tratto peculiare del cinema del grande regista americano – in quel “no, non posso spiegarlo”, che sembra precludere nettamente (anzi, rifiutare) la possibilità di un’interpretazione razionale, di una spiegazione.
Chi conosce le precedenti opere del creatore della serie cult Twin Peaks lo sa benissimo: i film di Lynch sono labirinti di immagini e suoni, in cui perdersi è facile e trovare l’uscita è impresa ardua, se non impossibile. Non sfugge a queste considerazioni INLAND EMPIRE (tutto maiuscolo, per volere del Maestro), opera geniale e sfuggente, sulla quale molto si è detto e scritto e molto – c’è da scommetterci – si continuerà a dire e scrivere negli anni a venire. Impossibile riassumere la trama: INLAND EMPIRE è, se possibile, ancora più ermetico, visionario ed inafferrabile dei precedenti ‘Strade Perdute’ e ‘Mulholland Drive’ – dove, se non altro, almeno uno straccio di storia c’era. Qui, invece, siamo al delirio puro: 183 minuti incubirici in cui realtà, sogno, allucinazione e finzione si confondono, lasciando sbigottito lo spettatore meno avveduto.
Simbolismi, giochi di scatole cinesi (il film nel film), volti inquietanti, abissi di turpitudine, depravazione e violenza, personaggi che si sdoppiano, triplicano, quadruplicano, giochi di luce da mozzare il fiato, labirinti e salti spazio-temporali: c’è tutto ciò ed altro ancora in questo straordinario affresco postmoderno dell’inconscio, in questo stupefacente viaggio nell’“impero della mente” (INLAND EMPIRE, per l’appunto, che però è anche un quartiere dell’amata Los Angeles…). In più c’è l’uso del digitale, una novità per Lynch (ma anche una scelta definitiva, stando alle parole del regista), le cui immagini sgranate finiscono con l’aggiungere un ulteriore fascino torbido all’operazione.
Impossibile spiegare, impossibile raccapezzarsi, impossibile non perdere il filo: un film così o lo si ama o lo si odia. La sensazione è che questa sia la pellicola definitiva del Maestro, il suo ‘2001: Odissea nello spazio’. Solo che qui il viaggio è tutto interiore – e non nell’accezione spirituale del termine: Lynch maneggia la materia ostica dell’inconscio, affronta il tema a lui tanto caro del labile confine tra realtà ed illusione, prendendoci per mano e introducendoci, volenti o nolenti, in un mondo in cui niente e nessuno è ciò che sembra – per poi lasciarci soli a metà strada, al buio, a contemplare tutto l’orrore nascosto dietro quel velo di Maya che è la nostra percezione del Mondo…