Di Silvia Casilio
Un libro da leggere tutto d’un fiato.
Un bel libro! Intrigante, coinvolgente ed appassionante: Rose e Pistole è forse l’unico libro pubblicato fino ad ora sul ’77 e firmato da un giornalista (un giovane giornalista) capace di raccontare efficacemente quello che uno dei protagonisti di quella stagione, Franco Berardi (Bifo), ha definito «l’anno sacrilego del doppio sette».
Non è un saggio storiografico: non ci sono note, non c’è una bibliografia di riferimento e Cappellini utilizza fonti che non stupiscono certo per la loro originalità eppure il racconto regge e i fatti salienti emergono con chiarezza seguendo un filo cronologico lineare e rigoroso. Dal proletariato giovanile protagonista delle domeniche autoridotte milanesi all’incendio dell’Angelo Azzurro a Torino, il ’77, con i suoi eccessi, la violenza e le trovate geniali, è tutto lì nelle 336 pagine del libro.
Non è un romanzo: le storie raccontate in Rose e Pistole fanno parte della storia di questo nostro Paese. Indiani metropolitani, streghe, autonomi inkazzati, brigatisti, proiettili vaganti e strade insanguinate non sono frutto dell’immaginazione dell’autore: nel ’77 c’era tutto questo e molto di più. Il merito più grande di Cappellini è, infatti, di aver saputo raccontare la complessità di quei giorni folli, drammatici, colorati, insanguinati, festosi e violenti in quelle 336 pagine che corrono via veloci senza bisogno di colpi di scena o di frasi ad effetto. Colpi di scena, frasi ad effetto e giudizi di valore che invece affollano e si rincorrono in Ali di piombo di Concetto Vecchio (Milano, Rizzoli, 2007), un altro giovane giornalista, che furbescamente ha pensato bene di cavalcare la tigre del trentennale (tanti sono gli anni che ci separano da quel fatidico anno) per sfornare un libro apparentemente dedicato al ’77: in realtà protagonista di questo testo è la tragica vicenda di Carlo Casalegno, gravemente ferito dalle Br il 16 novembre di trent’anni fa e morto dopo 13 giorni di agonia.
Rose e Pistole, invece, restituisce il clima di quel periodo e parla di quello che per alcuni fu l’ultimo sussulto del “lungo maggio italiano”, un insieme di tante facce, con tante espressioni di giovani che non esistono più, un movimento che fu insieme festa e violenza, gioco e morte.
Cappellini non inventa nulla: lascia parlare i fatti o meglio fa in modo che a parlare siano i protagonisti di quei fatti e lo fa attraverso le interviste o riproducendo articoli e documenti dell’epoca.
Il libro ci è piaciuto, quindi, anche se, concludendo, riteniamo necessario fare alcune precisazioni. In primo luogo, nell’introduzione si sostiene che il 1977 sarebbe l’anno in cui si estingue il comunismo italiano (p. IX): Cappellini confonde l’antipartitismo che sempre ha caratterizzato i movimenti e i gruppi nati a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo con l’anticomunismo. «In questa casa» scriveva Bifo in Chi ha ucciso Majakovskij (Milano, Squilibri, 1977) «ci abitiamo in molti. Vivere insieme, in modo collettivo con le stanze che comunicano una nell’altra […]. Siamo tutti comunisti, stanza per stanza» (p. 33). In quelle stanze c’era il movimento e la sinistra rivoluzionaria che mai negò o rinnegò le proprie origini: certo, molti dei giovani rivoluzionari degli anni Settanta si richiamavano al Marx dei Grundrisse e non ai classici del marxismo-leninismo ma nessuno dei protagonisti di quel periodo si sarebbe mai definito anticomunista. A finire nel ’77 non è il “comunismo italiano” ma la forma-partito entrata in crisi e messa fortemente in discussione già a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. «Forse aveva ragione Asor Rosa» scrive ancora Cappellini a p. 321 «a definire ‹anticomunisti› i giovani del movimento». Asor Rosa non si riferiva alla matrice culturale e politica del movimento ma alla violenta e radicale frattura che si era consumata – in modo definitivo dopo la “cacciata” di Luciano Lama, allora segretario della CGIL, dalla Sapienza – tra il Partito Comunista Italiano e i giovani della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria. Questa frattura fra i «non-garantiti» – e cioè i giovani del movimento – e il partito di Berlinguer era stata determinata, da una parte, dall’atteggiamento del Pci che, fin dall’inizio, scelse di contrapporsi al movimento considerandolo un fastidioso ostacolo in un momento politicamente delicato come quello che lo vedeva avvicinarsi al governo. Il PCI, infatti, era stato colto di sorpresa da questa nuova contestazione giovanile: troppo diverso e strano il linguaggio utilizzato da quei giovani dai volti colorati e troppo radicali e violenti i comportamenti di quei volti coperti dal passamontagna per un partito legato ad un’altra concezione dell’agire politico, più progettuale e finalizzata. Dall’altra, era stata provocata dal fatto che tutte le componenti del movimento – dagli emarginati delle periferie agli studenti fuori sede, dal sottoproletariato alle femministe, dagli indiani metropolitani agli autonomi – consideravano il Pci un partito d’ordine in nulla differente dalla Democrazia Cristiana. In un articolo del 1987, intitolato Le due sordità, Asor Rosa ha definito il 1977 «il momento in cui la lacerazione […] tra forze rappresentate (o sovra-rappresentate) e forze poco rappresentate (o nient’affatto rappresentate), […] tra sistema dei partiti e realtà sociali marginali» era esplosa in maniera clamorosa. I partiti, e in particolare quello comunista, di fronte al movimento si erano comportati «come quei selvaggi che prendono a calci l’onda che sale sulla spiaggia, gridando: ‹Via, via!›; perché non hanno ancora capito che esiste un fenomeno che, scientificamente parlando, si definisce “marea”» (A. Asor Rosa, Le due sordità, “L’Espresso”, 18 gennaio 1987).
Poi, ci sembra doveroso aprire una piccola parentesi sul concetto di flessibilità. «In netta opposizione col disobbediente degli anni Novanta,» scrive Cappellini (p. 319) «il creativo del ’77 vede nella flessibilità il germe della liberazione dal lavoro salariato: il part-time, il lavoro a domicilio rappresentano un primo passo verso la realizzazione dello slogan: ‹È ora, è ora, lavora solo un’ora›.». Partendo dal presupposto che non è possibile sovrapporre lotte e slogan coniati in periodi storici e in contesti politico-economici così diversi e lontani tra loro senza un giusto sforzo di contestualizzare situazioni e protagonisti, il disobbediente degli anni Novanta non contesta la flessibilità in sé, che effettivamente potrebbe anche essere considerata una ricchezza, ma la precarietà e cioè la totale mancanza di regole, di diritti e di tutele che oggi sembra governare (o non governare) il mondo del lavoro. Così come i creativi del ’77 (e non in opposizione ad essi), i disobbedienti di oggi lottano contro la disoccupazione e la mancanza di prospettive che fanno sì che i «non-garantiti» odierni vaghino per anni «tra color che son sospesi» tra contratti sempre più atipici e ingiusti che autorizzano lo sfruttamento fornendo strumenti e giustificazioni legali a datori di lavoro sempre più spregiudicati.
Infine, un’annotazione: uno dei capitoli del libro si intitola 13 maggio 1977: la morte di Giorgiana. Ma Giorgiana Masi muore il 12 maggio 1977, a Roma. Quel giorno il Partito radicale aveva promosso, nonostante un decreto prefettizio avesse vietato ogni manifestazione fino al 31 maggio, un corteo pacifico per celebrare la vittoria del referendum sul divorzio del 12 maggio 1974. La polizia era intervenuta prima picchiando alcuni parlamentari radicali e poi caricando un corteo che, a differenza delle altre volte, era privo di servizi d’ordine e di strumenti di difesa. Iniziata la sarabanda dei lacrimogeni ad altezza d’uomo, delle sassaiole, il corteo si era diviso in due spezzoni. Erano state erette barricate nel tentativo di sbarrare la strada alla polizia che nel corso di una delle cariche aveva iniziato a sparare con le sue armi. Gli scontri andarono avanti per ore. A tarda sera, arrivò la notizia che su Ponte Garibaldi era stata uccisa Giorgiana Masi, una simpatizzante del Partito Radicale, colpita alla schiena mentre fuggiva.
E allora perché il 13 maggio? Forse perché Cappellini si sofferma particolarmente sul dibattito che si sviluppò dopo la morte della diciannovenne romana?
Lo slogan pubblicato sulla quarta di copertina del libro ci sembra il modo migliore per congedarci dopo queste brevi note sul bel lavoro di Cappellini e su quei giovani che trent’anni fa, tra errori e contraddizioni, tornarono a riempire le piazze e le strade d’Italia: «Non è il ’68. È il ’77. Non abbiamo né passato né futuro. La storia ci uccide».