Original Silence ‘The First Original Silence’


(SmallTown SuperJazz/Wide 2007)

Ho assistito personalmente alla performance da cui prende corpo il debutto discografico degli Original Silence: ensemble stracolmo di rodati musicisti della ‘avant-sperimentazione’ tout cour: si va da Mats Gustaffson – colui che ha dato il primo respiro al progetto – a Terrie Ex, da Jim O’Rourke a Paal Nilssen-Love, da uno special guest come Thurston Moore ad un Massimo Pupillo, sempre più sciolto, nel figurare tra i ‘nomi che contano’ dell’underground planetario.
La serata dell’evento ci riporta al 2005, quando il Teatro Ariosto di Reggio Emilia scorgeva il palcoscenico diviso a turno tra gli Original Silence (che suonarono per ultimi) e un mostro sacro (nella prima, storica, visita italiana) come Haino Keiji. Pur confessando la mia trasmigrazione in onore dell’illustre noise-master giapponese, come la maggioranza del pubblico, mi avvicinavo con una certa curiosità all’avvenimento successivo. Complice, certo, la possibilità di scrutare in azione, contemporaneamente, un così vasto manipolo di star improvvisare assieme. Le aspettative, già pochi minuti dopo l’inizio, calarono notevolmente nell’umore: l’estetica Original Silence era (pur)troppo avvinghiata tra vecchi manierismi free; in confronto, qualsiasi concerto dell’Art Ensemble Of Chicago o di una realtà AACM, sarebbe stato più rivoluzionario e complesso, rispetto al secco ‘tritatutto’ di suoni del combo.
Francamente, neanche a distanza di tempo, l’ascolto di “The First Original Silence” riesce a stravolgere i miei neuroni: confesso che l’ascolto su supporto appare un tantino dissimile – in particolare nella forza ritmica – da allora, ma la ‘stasi creativa’ rimane immutata. Un impasto di suoni costipato, dove tutte le peculiarità dei singoli membri (l’anarko-punx degli Ex e il tocco Zu-kore di Pupillo, il burrascoso free jazz del duo Gustaffson- Nilssen-Love, lo zampino Sonic Youth di O’Rourke e Moore) si cozzano in maniera disordinata, per niente elegante, innalzando un polverone caotico e confuso di (sondata) free-music collettiva. I tipi della SmallTown SuperJazz c’è lo presentano come un intricato compendio di rock improvvisato al 100%, abitato da due lunghe suite, ove si rincorrono e accoppiano svariati aliti di: drone music, minimalismo sixties, noise annodato tra Boredoms e Merzbow, free jazz ayleriano, punk-Hc di fede Black Flag, Stooges-mania e noise odierno alla maniera dei Dead C.
Di sicuro vi è un’alchimia di più elementi in atto tra le pieghe del cd, ma possiamo tranquillamente semplificare il tutto, parlando di rodata improvvisazione collettiva devota parallelamente al free jazz (classico) quanto al punk.

Voto: 6

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