Con “L’Ultimo” arriva nelle libreria l’ultima testimonianza di chi visse in prima persona i tragici giorni della fine della seconda guerra mondiale, chiuso nel Führerbunker di Berlino, sino e oltre il 30 Aprile 1945.
Di Sergio Eletto
Rochus Misch “L’ultimo” (Castelvecchi 2007)
Rochus Misch è l’ultimo!
Rochus Misch è una specie di ‘eletto’ maledetto, che insieme a pochi fedelissimi del regime ha lasciato il Führerbunker di Berlino dopo il 30 Aprile 1945: giorno in cui Adolf Hitler, insieme alla moglie Eva Braun, si tolse la vita lasciando la capitale del Reich in balia del caos più puro e infernale.
Con l’arrivo nelle librerie de “L’ultimo” si getta un ulteriore testimonianza (di sicuro, la più rilevante) sui giorni che precedettero la ‘caduta’ del nazional-socialismo, ma anche sul quadro più generale del popolo che abitava e lavorava all’interno della cancelleria, a stretto contatto con il capo: termine che lo stesso Misch rispolvera più di una volta per indicare la figura di Hitler. Innanzitutto, prima di proseguire un’analisi più dettagliata del lavoro in questione, vi è da ricordare che sono già diversi anni (più o meno cinque) che gli storici stanno focalizzando sempre più l’attenzione sugli ultimi respiri del nazismo e, particolarmente, su quei tremendi giorni passati sotto terra nel bunker, tentando ogni possibile soluzione per respingere i sovietici dalle porte di Berlino.
Una delle manifestazioni più conosciute di ciò è sicuramente il lungometraggio di Oliver Hirschbiegel, “La Caduta” (“Der Untergang”), con la magistrale interpretazione di Bruno Ganz nei panni del Führer, dove si ‘fotografano’ i giorni che vanno dal 20 Aprile del ’45 in poi, con un Hitler sempre più avvilito e stanco che, tra farneticazioni e piani strategici immaginari, si limita ad aspettare l’imponente e devastante avanzata dell’Armata Rossa. La pellicola, essendo stata prodotta proprio in Germania, suscitò non poche polemiche, perché a detta di molti (tra cui spicca il nome del regista Wim Wenders) umanizzava troppo la figura del dittatore, rendendolo a tratti quasi amabile.
Tornando all’ambiente cartaceo, altre testimonianze dirette (e poi pubblicate), di chi visse in prima persona quei giorni ‘sotterranei’, riportano a Bernd Freytag Von Loringhoven e al suo “Nel Bunker di Hitler” (pubblicato da Einaudi) che, però, a differenza di Misch lasciò la cancelleria giusto un giorno prima della ‘fine’, ossia il 29 Aprile.
E’ utile tirare in ballo una figura come quella di Von Loringhoven per marcare una contrapposizione netta con quella di Rochus. Il primo era un ufficiale di carriera dell’esercito tedesco (la Wehrmacht) maggiormente devoto a quegli ambienti militari che, specialmente al calare della guerra, avevano tentato il tutto per tutto (arrivando sino al fallito attentato contro il capo) affinché la Germania firmasse un armistizio. Il secondo, invece, dopo aver assistito ad un paio di comparse pubbliche di Hitler e rimanendone piuttosto affascinato, decise di arruolarsi presso un corpo di volontari, vicino alle SS: le SSVerfügungstruppe che lo portarono il 1° settembre 1939 ad occupare la Polonia, ma ciò nonostante rimase poco (anzi per niente) attratto dalla politica.
Di fatti, scorrendo con gli occhi le parole rilasciate da Misch ne “L’ultimo”, sotto forma di intervista, una delle cose che rimarrà impressa per tutta la lettura è proprio la lontananza del protagonista dall’idealismo del Terzo Reich, sotto tutte le varie forme. Sembra addirittura che non sia stato mai iscritto neanche alla NSDAP, il partito nazional-socialista dei lavoratori tedeschi e né si sia mai professato in pubblico o in compagnia dei suoi commilitoni sostenitore della Nuova Europa o fervente anti-semita.
Un uomo mite, dunque, pronto sempre a ricevere ordini senza battere ciglio; un uomo le cui emozioni paiono azionarsi sempre in maniera pacata, quasi distaccata, anche quando racconta della moglie Gerda, conosciuta e sposata poco prima della guerra e con cui ha convissuto sino alla sua morte, avvenuta pochi anni fa.
Seguì sempre Hitler in tutti i suoi spostamenti, assistette al suo declino-suicidio e vide morire anche i sei figli di Goebbles. Fuggiti, uccisi o suicidatisi gli abitanti del bunker, erano rimasti in quel grande loculo solo in due: Misch e Hentschel, il centralinista e l’addetto agli impianti del bunker. Fu catturato dai sovietici che lo tennero in prigionia per nove anni: quattro trascorsi nelle segrete della Lubianka a Mosca, famigerato quartiere generale del KGB, e i rimanenti cinque in un Gulag in Siberia. Nella Lubianka fu torturato a tal punto da chiedere in prima persona la pena di morte la quale, però, gli venne negata.
Dopo la morte di Stalin, nel 1954 Misch fu rilasciato, tornò a Berlino dalla moglie Gerda, trascorrendo sino ai giorni nostri una vita in disparte. L’interesse verso di lui da parte degli studiosi è nato man mano che altri testimoni ‘oculari’ del bunker sono passati a vita migliore e dopo che Frau Junge, la famosa segretaria di Hitler, è venuta a mancare nel 2002.
E’ importante leggere un testo come “L’ultimo”, perché si conosce una persona che, seppur benevola, semplice, senza grossi obbiettivi da raggiungere nella vita, è stata parte integrante di un sistema come quello nazista.