Quattro righe di presentazione per quattro webzine che hanno deciso di comune accordo di pubblicare contemporaneamente un articolo scritto dal collaboratore di una di queste
di etero genio (no ©) – pubblicato su kathodik, rocklab, sinewaves e sands-zine
Introduzione
«Quattro righe di presentazione per quattro webzine che hanno deciso di comune accordo di pubblicare contemporaneamente un articolo scritto dal collaboratore di una di queste. Invece che tre questa volta è il quattro il numero perfetto, simbolo di una nuova alchimia della rete che si costituisce con questo atto/click. Idea che anima il progetto, minimo imput e prima fase di una sperimentazione atta a fornire un viatico per viandanti udenti, un consiglio per orecchie acusticamente attente che possono/vogliono attraverso la lettura, speriamo gradita di questo articolo/sguardo autorevole sul passato della riproduzione sonora nella forma del vinile, entrare negli archivi e nello scritto digitale di ognuna delle webzine in questione. Una guida all’ascolto articolata in varie fasi: la prima attraverso la lettura dell’articolo stesso, la seconda attraverso i links che sono presenti all’inizio dell’articolo e che rimandano alle altre webzine, le quali permettono attraverso il rimando all’articolo in home page, e qui si ha la terza fase, la consultazione e l’esplorazione del loro archivio di recensioni, articoli, interviste etc. etc. Ognuna che indica e guida all’altra, ognuna che crea un canale nella sfera connettiva della rete, ognuna che costituisce una sorta di “stringa” informativa acustica che rimanda ad altre “stringhe” informative acustiche che permettono al weblettore la creazione di un personale tracciato ipertestuale sonoro concettuale. Quattro righe che non sono quattro come non sono quattro ma infiniti i percorsi da sviluppare attraverso la lettura di “Vinile!!?!”. Buon viaggio e aprite le orecchie.» (Marco Paolucci)
Questo articolo contiene notizie, sogni, farneticazioni e illusioni, fate pure opera di taglia e cuci lasciando quello che vi sembra essenziale e cestinando il resto.
Quando, all’inizio degli anni ‘80, venne lanciato il nuovo supporto a lettura laser non furono molti a dargli fiducia, ma bastarono pochi anni per far sì che il CD superasse nelle vendite il vecchio vinile, tanto che quest’ultimo finì con lo sparire quasi completamente dal mercato, mentre i negozi di dischi svendevano le rimanenze e si riorganizzavano per sistemare le nuove scatoline. In realtà il vinile non è mai completamente scomparso ed ai vecchi nostalgici si sono presto aggiunte nuove schiere di giovani appassionati, che dapprima si sono riversate nelle mostre mercato alla ricerca delle vecchie produzioni e poi hanno funzionato quale zoccolo duro per una consistente ripresa della produzione. Non ho dati certi, e non so se esistono statistiche in tal senso, ma ci sono molti segnali che danno la produzione in vinile in netta ripresa, dalla nascita di piccole case discografiche specializzate nella produzione di quel supporto fonografico alla ripresa produttiva da parte di chi aveva cessato di stamparlo o non lo aveva mai stampato (cito come validi esempi la norvegese Rune Grammofon e la finlandese Fonal). Comunque potrebbe trattarsi di una semplice restaurazione momentanea, come quella sancita dal Congresso di Vienna nel 1814-1815 che rappresentò soltanto un’anticamera prima del tracollo definitivo dell’aristocrazia.
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Lo scenario che mi immagino, manco fossi Orwell, prevede il consumo di massa orientato verso le nuove tecnologie (iPod e sviluppi futuri) ed è testimone di un crollo a picco del CD, mentre un esiguo pubblico di appassionati dovrebbe orientarsi inevitabilmente sul vinile, che tornerebbe così a vivere come un oggetto per cultori di forme antiche, come lo sono i club di aficionados che ancora oggi praticano il tiro con la balestra, il canottaggio, il gioco della rulla, il biliardo, il gioco delle bocce, la vela….
Tutto ciò potrebbe anche voler dire la fine della musica come fenomeno d’ascolto, e a questo proposito sono d’accordo con quanto dice Maurizio Gusmerini degli St.ride nell’intervista fattagli da Matteo Uggeri per sands-zine: «Semplicemente la musica non è più così importante per i consumatori, è diventata l’accessorio di altri prodotti». In definitiva la musica quale fenomeno d’ascolto, così come la intendiamo noi, è una cosa piuttosto recente che nasce approssimativamente intorno alla metà del millennio passato con i teatri veneziani. Prima d’allora la musica era stata un elemento accessorio ad altre forme espressive (come il teatro greco), ad alcune attività sociali (come le orchestrine che suonavano ai matrimoni ebrei e le bande che seguivano gli eserciti romani), ai riti religiosi (come il canto gregoriano), o semplicemente un aspetto goliardico nei baccanali dove i musici coincidevano con il pubblico. Ma cosa intendo per musica d’ascolto? Una buona definizione potrebbe essere la seguente: «siamo in presenza di una musica d’ascolto quando un numero non indifferente di persone si riunisce al solo ed unico scopo di ascoltare una musica le cui caratteristiche fondamentali gli sono già note».
Lo sviluppo delle grandi comunicazioni e l’‘addomesticamento’ definitivo dell’elettricità, contravvenute verso la fine del 1800, crearono le premesse per la trasformazione della musica d’ascolto da fenomeno d’elite a fenomeno di massa. Questa trasformazione conteneva in sé, fin dall’inizio, i germi che potrebbero portare al superamento stesso della musica come forma artistica da assaporare al suo stato puro. E non c’è alcun dubbio che nessuna pop star avrebbe riscosso lo stesso successo a prescindere dall’immagine che la contrassegnava. Formulo due domande alla quali non darò alcuna risposta: 1) Jimi Hendrix avrebbe avuto lo stesso impatto senza l’immaginario edificato intorno alla sua figura? e 2) tale immaginario avrebbe potuto germogliare senza i grandi mezzi di comunicazione presenti nella nostra epoca?
Con la psichedelica, poi, la musica ha assunto significati propriamente cerimoniali, e spesso si è associata ad esplosioni di luci e colori. Lo stesso blues, dal quale molta della musica pop dell’ultimo 1900 prende avvio, non era tanto una musica d’ascolto ma un metodo, derivato dai ‘griot’ africani, di conservazione della memoria storica, ed altresì un metodo per far viaggiare le informazioni all’interno della comunità nero-americana. Pensate al punk, infine, ed al suo significato (sociale) di appartenenza.
Anche nell’andare a teatro dove l’orchestra suonava Beethoven c’era un aspetto rituale e d’appartenenza (quest’ultimo era addirittura molto forte), è ovvio, ma la partecipazione del pubblico era di tipo diverso – era un pubblico d’ascoltatori che partecipava emotivamente, anche approvando o disapprovando l’esecuzione in modo piuttosto deciso – mentre nei concerti punk il pubblico è una presenza fisica attiva che sputa sui musicisti, lancia bottiglie sul palco e poga a tutto spiano, e non fa tutto questo all’interno di una logica di approvazione e/o disapprovazione ma nell’intento di partecipare fisicamente all’esecuzione stessa. E, di converso, i musicisti che si tuffano sul pubblico contribuiscono in modo determinante a questa specie di simbiosi. La musica pop, insomma, anche per quanto riguarda le ricezione appare più come una derivazione della musica africana e dei baccanali popolari che non della musica europea come fenomeno prettamente d’ascolto. Siccome la musica d’ascolto non è un fenomeno che appartiene alla storia dell’umanità nella sua interezza, ma è prettamente legata al secondo millennio d.c., e dal momento che nulla è immutabile e immortale, non ci sono motivi per non pensare che la musica d’ascolto come tale potrebbe essere veramente arrivata ad un suo capolinea. Il futuro della musica, quindi, potrebbe essere legato alla sonorizzazione d’ambienti, d’immagini, di videogiochi, di spot pubblicitari e quant’altro la società tecnologica del domani sarà in grado di riservarci.
Cosa c’entra tutto ciò con il vinile e cosa c’entra il vinile con tutto ciò?
C’entra eccome, dacché il vinile ha rappresentato il punto massimo raggiunto, quanto a popolarità, dalla musica d’ascolto e ne ha rappresentato contemporaneamente la sua possibile tomba, proprio perché nel suo essere oggetto reale e tangibile ha rappresentato un superamento della musica in quanto suono allo stato puro. E a questo punto formulo un’altra domanda: quante volte avete scelto di comprare un disco perché aveva una copertina particolarmente bella e intrigante?
Questa che vengo a proporvi non è tanto una storia del vinile, anche se dovrò giocoforza dare dei cenni storici, poiché già esistono in rete trattati di questo tipo e io non sarei sicuramente in grado di fare meglio. Neppure si tratta di una difesa del vinile contro l’invasione digitale, semplicemente si tratta di appunti personali che rivivono, attraverso i miei occhi, le vicende di quello che è stato uno degli elementi caratterizzanti del secolo scorso, cercando di capire se veramente esistono degli spazi per la sua sopravvivenza e andando anche ad individuare le forme – fra marketing e pop art – che lo hanno reso così caratteristico proprio come oggetto in quanto tale.
Quindi non troverete nulla a proposito di quelle forme artistiche che ne hanno fatto uso, come i dj o gli attivisti Fluxus, manipolando e deformando per i propri scopi espressivi dei vinili che non erano stati fabbricati per quello specifico uso. Viceversa troverete una serie di notizie a proposito del design, del packaging e della meccanica di alcuni vinili che sono autentiche opere d’arte prodotte e distribuite in serie.
Ma la prima domanda che dobbiamo porci è: cos’è il vinile?
È idea piuttosto comune considerare come ‘vinile’, senza fare distinzioni, tutta la produzione discografica che ha preceduto l’avvento del CD. In realtà l’introduzione del supporto fonografico in vinile (PVC) risale al 1948 (anche se la sperimentazione sul suo utilizzo era iniziata già nel 1929), prima di quell’anno il materiale utilizzato per la fabbricazione dei dischi era essenzialmente la bachelite, anche se non esisteva una reale uniformità sia per quanto riguarda il materiale impiegato, sia per quanto riguarda il diametro del supporto e sia per quanto riguarda la velocità di riproduzione del suono. In linea di massima i supporti avevano comunque un diametro di 10 pollici (pari a circa 24,5 cm), funzionavano ad una velocità di 78 giri al minuto e duravano circa 3-4 minuti per facciata.
Era stato Thomas Alva Edison che, nel 1877, aveva dato uno sbocco concreto a secoli di ricerca sulla riproduzione del suono con l’invenzione del fonografo, uno strumento che leggeva dei segnali tracciati su un supporto a forma di cilindro. Risale invece al 1887 l’invenzione da parte di Berliner del grammofono, che funzionava utilizzando la registrazione su un supporto piatto (disco). Per anni ci fu una certa lotta fra i fautori del sistema a cilindro e i fautori del sistema a disco, quest’ultimo sistema la spuntò nel 1913 quando anche Edison si convertì al suo utilizzo. Nel 1898, intanto, il danese Poulsen aveva effettuato la prima registrazione su supporto scorrevole, utilizzando un filo metallico al posto di quello che in futuro sarà il nastro magnetico, ponendo così le prime basi per sistemi concorrenziali al disco e per il suo stesso superamento. All’inizio degli anni trenta entra infatti in funzione la registrazione su nastro magnetico ed appaiono i primi magnetofoni, mentre per avere la comune audiocassetta bisognerà attendere il 1963. La concorrenza di quest’ultima sarà ben manifesta non tanto in un suo ruolo alternativo al disco, seppure presso quel pubblico che ascolta la musica prevalentemente in auto ciò è sicuramente vero, bensì perché rende possibile il trasferimento del contenuto musicale di un vinile su un altro supporto, di fatto la cassetta stessa, realizzabile a livello domestico ed a bassi costi.
La battaglia ingaggiata dall’industria discografica contro l’home-taping è stata una battaglia persa in partenza e le stesse case discografiche hanno sempre tenuto il piede in due staffe, da una parte all’insegna dello slogan «home-taping kill the music» e dall’altra continuando a immettere sul mercato le audio-cassette registrabili. Ci vorrebbero dei dati che non ho ma, probabilmente, dietro a tutta la faccenda c’erano dei giochi sporchi, e magari le perdite degli introiti nella vendita dei dischi venivano in qualche modo ampiamente recuperati dalla vendita delle audio-cassette registrabili. In tale contesto vale la pena citare l’iniziativa di un gruppo indipendente ad oltranza, gli olandesi Ex, che nel 1988 pubblicarono un LP (“Aural Guerrilla”) contenente come gadget una copertina per audio-cassetta, mentre lo slogan anti-registrazione domestica era virato in un ben diverso «home-taping still saves money». Seguendo questo filo mi sembra logico che il CD si porta appreso fin dalla nascita, come carattere congenito, il cromosoma del fallimento, dal momento che a livello domestico è possibile trasferire il suo contenuto su un supporto dalle stesse caratteristiche e dalla qualità molto simile.
Ma torniamo ai primordi quando, agli inizi del 1900, comincia la produzione del disco e nascono le prime compagnie discografiche che, già dai primi anni del secolo, sperimentano quei supporti incisi su entrambi i lati, destinati a conquistare il mercato, che entreranno effettivamente in commercio solo in un secondo tempo. Intorno al 1915 si inizia a parlare anche di trasmissioni radio e nel 1919 inizia a svilupparsi il giradischi elettrico, che poi si diversificherà in varie forme: dal portatile all’impianto hi-fi passando attraverso il mangiadischi che, in teoria, avrebbe dovuto contrastare lo sviluppo dell’audio-cassetta. Nel 1927 venne presentato anche il primo juke-box, un sistema che (al pari della radio) portava la musica direttamente in ‘casa’ al pubblico e si poneva in concorrenza con lo smercio del vinile seppure, a volte, poteva funzionare anche come un primo stimolo verso il suo acquisto.
Ed ora ripartiamo dall’inizio con il vinile vero e proprio, che comincia a venire prodotto in serie, e non in modo sperimentale, all’inizio degli anni ’50 – ma i supporti erano già stati presentati nel 1947 e nel 1949 rispettivamente nelle forme di 33⅓ e 45 giri – ed in breve tempo va a sostituire completamente i vecchi dischi in bachelite. Il motivo di ciò va ricercato nella maggiore resistenza di quel materiale e nelle sue caratteristiche tecniche, che permisero di rimpicciolire la larghezza dei solchi (motivo per cui venne detto anche microsolco) e di abbassare il numero dei giri per minuto, ottenendo così una capienza molto maggiore.
In realtà per il 78 giri ci fu ancora qualche anno di sopravvivenza, prima del declino definitivo, mentre una quarta opzione a 16,6 giri al minuto (in grado di ottenere una maggiore durata a scapito della fedeltà) non ebbe mai una diffusione consistente, tanto che ad un certo punto nei giradischi scomparvero le opzioni riguardanti sia la velocità a 16 giri sia la velocità a 78 giri. Ad ogni velocità di rotazione corrispondeva solitamente un disco di diametro diverso (altro parametro con il quale il disco stesso poteva essere identificato): al 33 giri (long-playing o LP) corrispondeva un diametro di 12 pollici (più o meno pari a 30,5 cm) mentre al 45 giri (singolo) corrispondeva un diametro di 7 pollici (più o meno pari a 17,8 cm). Nella realtà esistevano però 7 pollici a 33 giri e 12 pollici a 45 giri (solitamente detti extended-playing o EP). Un altro formato piuttosto comune era il 10 pollici (più o meno 24,5 cm) che aveva resistito al decadimento del 78 giri e poteva ruotare sia alla velocità di 33 giri al minuto (il più diffuso) sia a quella di 45 giri al minuto (il 10 pollici rientrava chiaramente nella categoria degli EP o dei mini-LP).
Logicamente la velocità e il diametro erano i parametri in grado di determinare le durate limite dei dischi: per il 12 pollici a 33 giri era di circa 30 minuti per lato; per il 12 pollici a 45 giri era di circa 15 minuti per lato; per il 7 pollici a 45 giri era di circa 4 minuti per lato, e questi sono parametri sufficienti a calcolare i possibili tempi massimi per tutte le altre opzioni. Il formato poteva comunque divergere da quelli descritti e sono stati prodotti dischi anche con diametri diversi (per esempio esisteva un 16 pollici usato in ambito radiofonico) e, personalmente, ho un 9 pollici dell’etichetta texana Elevator Bath.
A parità di diametro, una differenza di velocità poteva determinare una minore durata ed un allargamento dei solchi, e questo determinava anche una differente qualità d’ascolto. E, in base alle esigenze tecniche – destinazione del disco, qualità, durata… – ma a volte anche alla lunaticità del musicista e/o del produttore, si venivano a creare numerose opzioni anche nella possibile diversificazione della velocità di lettura all’interno di uno stesso disco (per esempio un lato a 33 e l’altro a 45 giri). La prima volta che mi sono imbattuto in un disco con queste caratteristiche è stato nel 1989 con “Malefactor, Ade” dei Red Crayola, ma quello non era certo il primo caso esistente. L’episodio più strano è sicuramente rappresentato da “Wow” (Columbia, 1968) dei Moby Grape, si trattava di un LP a 33 giri nella cui scaletta il genialoide chitarrista Alexander ‘Skip’ Spence volle inserire un brano che andava ascoltato a 78 giri (Just Like Gene Autry; A Foxtrot).
Un’altra opzione poteva apparire come un ritorno alle origini del disco, con il vinile inciso in un solo lato, e la prima volta che mi sono imbattuto in un LP simile è stato quando ho comprato “Bells” di Albert Ayler (ESP, 1965) – che per la disperazione dei collezionisti venne pubblicato in più edizioni diverse l’una dall’altra – ma voglio ricordare anche “Second Winter”, del chitarrista albino Johnny Winter, che era un doppio LP inciso in sole 3 facciate (CBS, 1969).
E così ecco che ho già introdotto la variante del disco doppio, triplo, quadruplo e dei cofanetti con un numero anche maggiore di dischi. Sembra che il primo LP doppio della storia, almeno per quanto riguarda la musica rock, sia “Blonde On Blonde” (Columbia, 1966) di Bob Dylan che precedette, anche se soltanto di due mesi, “Freak Out!” di Frank Zappa. A partire da questi primi timidi approcci – entrambi avevano una durata che non superava i 75 minuti – si arrivò ad alcune imbarazzanti situazioni, nelle quali venivano abbandonati ogni remora ed ogni pudore, come quella che vide i Chicago dare alle stampe un ‘quadruplo’ album live (nel 1971) dopo che nel triennio 1969-1972 avevano già pubblicato ben tre LP doppi (alla faccia!?!!). Ma quello che più ha caratterizzato il vinile come oggetto artistico prodotto in serie – e, in alcuni casi, realmente ‘tipico’ – sono state le copertine e le confezioni, la cui realizzazione venne spesso demandata a noti artisti attivi nel settore delle arti contemporanee (grafica, fumetto, fotografia e pop art in genere). Sotto questo aspetto è necessaria una puntualizzazione: nella musica contemporanea e nel jazz si fece normalmente più riferimento alle arti classiche, seppure nei loro aspetti sperimentali, com’è il caso dell’Ornette Coleman di “Free Jazz” che aveva in copertina un dipinto di Jackson Pollock. La musica pop si rivolgeva ad un pubblico più giovane e logicamente fu meno seriosa e certamente più innovativa (naturalmente con le dovute eccezioni: ad esempio Hieronymus Bosch venne utilizzato, tra gli altri, dai Pearls Before Swine di “One Nation Underground” e dai Deep Purple del terzo album eponimo).
La qualità e l’originalità della confezione è stato uno dei fattori che ha spesso contribuito a determinare le vendite di un disco, ed è quindi logico che (in perfetta linea con la pop-art) dietro alla stessa vi fossero motivi di marketing.
Per quanto riguarda la grafica delle copertine si possono segnalare due tendenze: 1) personalizzare ogni singolo disco cercando di proporre un look che ne esalti i contenuti, o esalti l’immagine del musicista, oppure 2) creare una linea estetica tipica, e riconoscibile a colpo d’occhio, in grado di far individuare i prodotti di quella compagnia discografica anche in mezzo ad altri mille (com’è il caso dell’etichetta jazz Blue Note o della ESP; e quest’ultima, con il suo look sgarrupato, ha determinato uno standard valido per numerose altre etichette indipendenti).
La confezione standardizzata ha avuto la massima esaltazione nelle ‘collane’ che, soprattutto a partire dagli anni ’70, molte fra le più importanti case editrici specializzate dedicarono ad alcuni settori specifici della musica. Le più prestigiose di queste collane furono destinate alla musica classica contemporanea (com’è il caso delle serie ‘Nova Musica’ e ‘DIVerso’ pubblicate dall’italiana Cramps) mentre al rock ed al jazz furono riservate pubblicazioni piuttosto dozzinali prodotte da case editrici non specializzate in musica e distribuite tramite canali alternativi ai negozi di dischi (edicole, supermercati, librerie…). In una logica da ‘collana’ si può inserire l’iniziativa inaugurata nel 1988 dalla Sub Pop di Seattle e denominata ‘The Sub Pop Singles Club’; si trattava di una serie di 7 pollici pubblicati con scadenza mensile che potevi ricevere sottoscrivendo un abbonamento, un sistema che (soprattutto per quanto riguarda la produzione su singolo a 45 giri) è stato in seguito utilizzato anche da altri, seppure con minor risonanza.
Non vanno dimenticate, infine, le produzioni bootleg (letteralmente ‘gamba dello stivale’). Il termine, che indicava originariamente i liquori distillati clandestinamente e/o altri prodotti di contrabbando che venivano nascosti nella gamba dello stivale, è diventato sinonimo delle produzioni discografiche illegali che potevano, in linea di massima, essere racchiuse in tre genotipi: 1) ristampe di dischi fuori catalogo; 2) stampe ex-novo di materiali registrati durante un concerto e 3) raccolte di materiali inediti trafugati da qualche studio di registrazione. Le confezioni erano molto grezze e povere, e sono state prese spesso a modello nel settore dell’autoproduzione e della produzione indipendente (soprattutto in area punk), anche se uno dei primi dischi ufficiali a sfoggiare una veste simil-bootleg fu il leggendario “Live At Leeds” degli Who uscito nel 1970 per una grande etichetta (la britannica Track che aveva in catalogo anche Jimi Hendrix, Thunderclap Newman e Arthur Brown).
Lo staff che gestì l’ascesa dei Beatles fu tra i primi a comprendere l’importanza che aveva la confezione e agì di conseguenza fin dal secondo disco del gruppo, che in copertina presentava il bellissimo b/n ultra-contrastato del fotografo Robert Freeman, il quale firmò poi tutte le copertine dei dischi successivi fino a “Rubber Soul”. La copertina di “With The Beatles”, per come era azzeccata, diventò una specie di esempio da imitare. A proposito dei numerosi >fotografi coinvolti nella realizzazione di copertine per dischi credo sia obbligo ricordare i nomi di David Bailey e Robert Mapplethorpe.
Il primo era un po’ il fotografo ufficiale della ‘swinging london’, tanto che la sua figura fu presa a modello da Antonioni nel film “Blow-up”, e fra le numerose copertine da lui firmate spiccano alcuni scatti per i Rolling Stones. Nel primo LP del gruppo si rifaceva palesemente all’impostazione di Freeman, ma la foto di copertina per la versione americana di “Out Of Our Heads” si staccava da quel modello così ‘pulito’, preciso e geometrico; si tratta infatti di un’immagine estremamente scomposta, con le teste dei musicisti poste su piani diversi che sembrano voler uscire dal riquadro. L’impressione che ne deriva è quella di un’ammucchiata selvaggia e tale idea verrà ripresa in più di un’occasione, soprattutto per rappresentare gruppi dal suono sporco, grezzo e trasgressivo memore dei primi Stones (com’è il caso degli Stooges del disco d’esordio).
Mapplethorpe era invece legato al giro della prima new wave newyorchese, e i suoi ritratti ‘poetici’, sessualmente equivocabili e molto ‘cool’ hanno impresso carattere ai dischi d’esordio di Patti Smith e Television; ma il compianto fotografo newyorchese ha firmato anche “Strange Angels” di Laurie Anderson, “Secret Secrets” di Joan Armatrading, ulteriori dischi della stessa Smith e altri ancora.
A proposito di disegnatori e fumettisti ne ho già scritto nell’articolo sull’etichetta francese Textile ed a quello vi rimando (lo trovate negli archivi di sands-zine), anche se voglio comunque citare l’opera indimenticabile di Robert Crumb in “Cheap Thrills” di Janis Joplin.
Per quanto riguarda il design più in generale, invece, l’industria del ‘disco pop’ si è affiliata integralmente alla pop-art, sia quando si è rivolta ad artisti di quella corrente sia nell’idea che sta dietro alla produzione seriale dell’oggetto artistico e collezionabile. E a proposito di pop art l’occhio deve inevitabilmente puntarsi su Andy Warhol e su copertine capolavoro come quella che caratterizzò l’esordio dei Velvet Underground o come quella di “Sticky Fingers” dei Rolling Stones, la prima con la classica banana sbucciabile e la seconda con la cerniera dei jeans apribile. Un altro piccolo capolavoro di Warhol, seppur meno conosciuto, è rappresentato dalla copertina disegnata per “Academy In Peril” di John Cale, formata da un mosaico di provini con primi e primissimi piani del musicista.
Un’altra copertina che si rifà indiscutibilmente alla pop art è quella del “Sgt. Pepper” dei Beatles. Tanto fu studiato quel disco a livello di lavorazione quanto fu studiata l’immagine scelta per rappresentarlo, il pluridecorato mosaico atemporale di personaggi ‘famosi’, che venne commissionata all’artista Peter Thomas Blake. Si può mettere in discussione la musica dei Beatles, sia da un punto di vista qualitativo sia per l’eventuale influenza che ha rappresentato nel mondo della musica pop ma, indiscutibilmente, si deve dare atto allo staff che curava l’immagine del gruppo di essere stato all’avanguardia in fatto di marketing. La copertina più interessante di quegli anni è comunque quella disegnata da David King e Roger Law per “Who Sell Out” degli Who, anche perché il mondo della pubblicità rappresentato in modo così grottesco rispecchia perfettamente il contenuto musicale del disco, e lo fa in maniera molto più determinante di quanto era successo in “Velvet Underground And Nico” o in “Sgt. Pepper”.
Ma, oltre che nella parte grafica, la copertina di un disco poteva caratterizzarsi per la sua forma geometrica. “Ogden’s Nut Gone Flake” degli Small Faces, con il suo aspetto rotondo a imitazione di una scatola di tabacco, è uno dei primi esempi di una creatività che nel tempo si è espressa in innumerevoli soluzioni. Il primo LP dei Soft Machine aveva, ad esempio, un copertina con degli ingranaggi meccanici e delle rotelline che rendevano variabili alcuni particolari, un po’ come avviene in quei libri animati per bambini. L’idea fu ripresa dai Led Zeppelin di “III” che ebbero però qualche difficoltà nella realizzazione definitiva del marchingegno, tanto che (almeno in Italia) il disco fu pubblicato in ben due vesti provvisorie prima di apparire finalmente nella sua versione definitiva.
In tempo di progressive, prima, e di New Wave, poi, questa immaginazione andò ampliandosi a dismisura, e quale esempio di confezioni veramente epocali sono assolutamente da tener presenti la busta trasparente con mano radiografata, contenente un vinile egualmente trasparente, del primo Faust (Polydor 1971) e la scatola rotonda di metallo del “Metal Box” dei PIL (Virgin 1979), all’interno della quale c’erano ben tre 12 pollici a 45 giri. In un secondo tempo quest’ultimo disco venne ristampato come doppio LP con normale copertina in cartone e con il titolo mutato in “Second Edition”: la musica era la stessa ma il disappunto degli appassionati fu egualmente enorme. Una delle ultime grandi copertine, proprio quando il CD aveva ormai messo in forse la sopravvivenza del vinile, fu quella di “Paul’s Boutique” dei Beastie Boys; si trattava di una confezione doppiamente apribile con una foto che, metà sul lato esterno e metà sul lato interno, mostrava un crocevia newyorchese in una angolazione a tutto tondo di 360° (lo scatto era di uno degli stessi Beastie Boys, Adam Nathaniel Yauch aka MCA aka Nathaniel Hörnblowér).
La grafica di copertina ha quindi segnato la storia stessa del vinile, e quindi della musica, e i dischi del progressive non sarebbero stati gli stessi senza quelle copertine improntate ad un fantastico-gotico (il disegno di Barry Godber per il disco d’esordio dei King Crimson resta fra le cose epocali), così come non sarebbero stati gli stessi il metal, il dark e/o la new wave senza i rispettivi immaginari visivi. Pensate un attimo al primo disco dei Black Sabbath e cercate di immaginarlo con una copertina diversa… è praticamente impossibile. L’inquietante fotografia di Marcus Reef, stampata a colori molto ovattati, crea il senso di un paesaggio irreale immerso fra le sterpaglie, con in primo piano una giovane donna intabarrata di nero e dal volto emaciato e pallido, difficile stabilire se è un essere in carne ed ossa od una semplice visione, e sullo sfondo una casa che sembra abbandonata e mette il dubbio di essere abitata dagli spiriti, insomma una di quelle case in cui non entrereste mai dopo il tramonto. In seguito sono uscite copertine con zombie, diavoli e mostri di vario genere, ma nessuna è mai riuscita ad essere sinistra quanto questo piccolo capolavoro di arte noir allusiva senza essere esplicita.
Da segnalare ancora ci sono le copertine apribili a poster e/o a giornale che, già sperimentate negli anni ’60 da gruppi come i Deviants, durante gli anni ’80 furono un elemento base nella produzione discografica di alcune compagnie discografiche indipendenti e/o di alcuni gruppi, come gli anarco-punk Crass, che erano particolarmente politicizzati.
La politicizzazione di alcuni settori dell’ambiente musicale – magari semplicemente di carattere anarchico ed individualista e/o non compromessa con alcuna ideologia specifica – ha portato poi allo sviluppo dell’autoproduzione e del fai-da-te, con confezioni sempre più naif e artigianali. Un caso specifico molto significativo è quello dei Caroliner, che avvolgono i loro LP uno ad uno utilizzando spesso buste di plastica da negozio, materiali riciclati e cartoni ritagliati a mano arredati con pitture molto grezze ed elementari.
Inoltre ci sono i vari gadget – dal poster, al libretto con i testi e ai vari tipi di oggettistica – che potevano essere allegati alle confezioni, anche se magari solo in un numero limitato di copie (ma questo del numero limitato di copie confezionate in modo più ‘particolare’ è un concetto valido per quasi tutte le opzioni di cui s’è scritto fin qui, e serviva a creare una piccola corsa iniziale all’acquisto dell’oggetto). E proprio ad un poster compreso nella confezione è legato uno dei più clamorosi casi di censura di tutti i tempi; mi sto riferendo all’opera “Penis Landscape” dello svizzero Hans Ruedi Giger, un artista sospeso fra surrealismo e cyber-art noto per aver creato Alien e per aver disegnato numerose copertine di dischi, che era contenuta nel disco “Frankenchrist” dei Dead Kennedys (Alternative Tentacles, 1985). Sicuramente vi è noto che il leader del gruppo Jello Biafra fu accusato di oscenità e intentò causa allo stato americano, molti musicisti si mobilitarono e organizzarono concerti e compilazioni per raccogliere fondi destinati a sostenere la sua battaglia che venne addirittura vinta anche dal punto di vista legale.
Ma i casi legati alla censura per l’aspetto della copertina sono tanto numerosi quanto quelli legati al contenuto dei testi, e posso citare dischi famosi come “Electric Ladyland” di Jini Hendrix e l’eponimo esordio dei “Blind Faith”, entrambi incorsi nelle ire dei censori perché avevano delle foto di donne seminude in bella mostra (è buffo constatare come le azioni censorie cambino con il cambiamento dei costumi). Un altro caso celebre di azione censoria è quello legato alla copertina di “Beggars Banquet” dei Rolling Stones, che originalmente prevedeva la foto della parete interna di un gabinetto piena di graffiti – il fotografo era Barry Feinstein (lo stesso che immortalò il Bob Dylan di “The Times they Are A-Changin’” e la Janis Joplin di “Pearl”) – e che venne rifiutata dalla stessa casa discografica; in sostituzione fu approntata una copertina monocromatica apribile a libro, sullo stile del beatlesiano ‘doppio bianco’ (che con quel disco avevano dettato un altro standard, quello della copertina monocromatica), senza nessuna immagine nel frontespizio e con riportato solo il nome del gruppo, il titolo dell’album e l’acronimo r.s.v.p. (répondez, s’il vous plaît), mentre nell’interno c’erano i cinque Stones ritratti durante una specie di ‘ultima cena’ blasfema (scatto di Michael Joseph) che fu lugubremente premonitrice, dal momento che all’uscita del disco successivo Brian Jones si era già immolato nell’altare della gloria (in realtà non si trattava di un altare ma di una piscina). Nelle ultime ristampe del disco è stata recuperata l’idea originale, quella con il cesso di Los Angeles, che fa molto ‘punk’ ma spiazza chi ormai s’era affezionato all’elegante copertina ufficiale della prima edizione.
Un altro caso clamoroso riguarda i Negativeland, che nel 1991 pubblicarono su SST un EP intitolato “U2” contenente la versione caricaturale della canzone I Still Haven’t Found What I’m Looking For del famoso gruppo irlandese, con l’utilizzo di campioni ripresi dalla stessa, e forse avrebbero potuto passarla liscia se non avessero ostentato il tutto in una confezione tanto intelligente quanto provocatoria: il titolo del disco appariva molto grande mentre il nome del gruppo appariva in basso e relativamente piccolo, in primo piano al centro c’era poi la sagoma di uno dei bombardieri dai quali era stato ripreso il nome U2, e l’impressione a prima vista era quella di essere davanti ad un nuovo disco degli U2 intitolato “Negativeland”, una piccola truffa ai danni dai fan di Bono & Co. La provocazione era così scoperta ed intelligente che, in un mondo altrettanto intelligente, ai Negativeland avrebbero dovuto consegnare l’Oscar, invece la Island Records intentò causa al gruppo americano e la vinse mettendo economicamente in ginocchio sia i Negativeland sia la SST.
Ancora si può narrare dei tentativi di opera multimediale, ed anche qui è obbligatorio guardare indietro verso la produzione dei Beatles che pubblicarono il loro ultimo disco “Let it Be” all’interno di un cofanetto contente anche un libro fotografico a documentazione delle registrazioni, mentre il lavoro usciva anche nelle sale cinematografiche in veste di Film (diretto da Michael Lindsay-Hogg). Ma l’operazione multimediale più ambiziosa verrà però concepita alcuni anni dopo dai Virgin Prunes che studiarono “A New Form Of Beauty” come un’opera complessa e divisa in più parti comprendenti un 7″, un 10″, un 12″, una cassetta, una performance, un video ed un libro. Purtroppo l’opera non venne mai portata a termine nella sua interezza.
Lester Bangs nel 1972 scriveva ironicamente: «In effetti, ormai rimane solo un’ultima vetta da scalare per i Chicago: quando arriveranno a Chicago VII, potrebbero pubblicare un disco settuplo, con un album per ciascun membro del gruppo – un disco intero solo col basso di Peter Cetera, un altro di Lee Loughnane alla tromba, e così via – che suona una versione di Does Anybody Really Know What Time It Is? lunga quaranta minuti, e poi potremmo procurarci sette giradischi e ascoltare il concerto più fantastico del mondo». In realtà quanto vaneggiato dal giornalista era già stato attuato, in parte nel doppio LP “Ummagumma” dei Pink Floyd (Harvest, 1969) dove uno dei due LP era ripartito a pari merito, mezzo lato a testa, fra i quattro musicisti del gruppo. Quel disco aveva anche altre caratteristiche che ne fanno a suo modo un’opera epocale, dall’idea del doppio con un disco registrato in studio ed un disco registrato in concerto alla splendida copertina, del fotografo-designer Storm Thorgerson, che dava lustro a quei lavori in cui l’uso di tecnologie avanzate soppiantava l’utilizzo dello scatto fotografico puro e semplice. L’immagine mostra i quattro musicisti che posano in una particolare figurazione, il primo di essi è sulla soglia di un edificio mentre gli altri sono scaglionati verso l’esterno, il punto di osservazione è invece all’interno e l’inquadratura, oltre ai quattro, comprende anche un pezzo di parete sulla quale è appeso un quadro contenente la stessa figurazione, ma con i quattro che si sono scambiati le posizioni; questo secondo quadro contiene un terzo quadro che ne contiene un quarto, secondo una logica da scatole cinesi che potrebbe durare all’infinito, e in ogni quadro i musicisti cambiano posizione, con il primo che prende il posto dell’ultimo, l’ultimo del terzo, e così via.
Per quanto riguarda l’idea della composizione scissa in più dischi, da far suonare contemporaneamente in più giradischi, la sperimentatrice elettronica francese Eliane Radigue aveva pubblicato, anche lei nel 1969, un doppio 7″ in 300 copie dal titolo einsteiniano “Σ = a = b = a + b”; i due vinili erano incisi in un solo lato, erano concepiti per essere suonati in contemporanea su due giradischi diversi e potevano funzionare a 45, 33, 16 e 78 giri, creando così la possibilità di una serie innumerevole di combinazioni diverse (e questa è una cosa che chiunque possegga più di un impianto stereo può sperimentare utilizzando qualsiasi disco).
Entriamo così nel tema dei vinili dalla meccanica anomala, evitando però di immergerci nelle manipolazioni che possono essere effettuate su dischi prodotti normalmente – quali gli scratch, le inversioni di marcia ed i montaggi dei dj – e pure nelle alterazioni con graffi ed altro effettuate dagli artisti Fluxus, ma limitando la ricerca ai vinili concepiti per funzionare in modo atipico e, di conseguenza, realizzati in quella specifica forma. I casi non sono numerosi, ma probabilmente non li conosco tutti, e pure offrono una panoramica piuttosto vasta sulle possibilità manipolatorie che offriva il vinile (già in fase di progettazione).
Nel 1964 gli americani Knickerbocker, un gruppo garage che veniva definito come ‘i Beatles d’America’, esordirono con un LP che funzionava secondo un meccanismo detto trick-track. In “Sing and Sync-Along With Lloyd”, questo il titolo dell’album, le canzoni non erano disposte sequenzialmente l’una con l’altra ma su solchi non comunicanti. In pratica ogni brano cominciava nel bordo esterno del microsolco e finiva al centro (è difficile da spiegare e da capire senza avere in mano il disco: fate comunque una prova immaginando il solco di un disco non avvoltolato a spirale ma stirato come una linea retta, normalmente quel solco è unico e dove termina una canzone c’è uno spazio vuoto e poi inizia l’altra, nel caso di “Sing and Sync-Along With Lloyd” ci sono invece tanti solchi quante sono le canzoni e corrono l’uno parallelamente all’altro come corsie di una strada che non comunichino fra sé, una volta che ne avete imboccata una dovete andare fino in fondo e per imboccarne un’altra dovete tornare all’inizio… non sono proprio in grado di spiegare meglio questo assurdo meccanismo). E così era praticamente impossibile stabilire a priori qual era la canzone selezionata, così com’era complicatissimo riuscire ad ascoltare tutti i brani senza fare prima vari tentativi e senza imbattersi più volte di seguito nello stesso brano. Mi immagino l’incazzatura di chi comprò il disco, tenendo conto che in quegli anni l’idea dell’oggetto da collezione non era certamente ancora molto diffusa. Qualche anno dopo, nel 1970, il gruppo progressive inglese dei Curved Air inaugurò la propria discografia con quello che è considerato il primo picture-disc del rock. A differenza del sistema trick-track, che rimase caso unico, il picture disc ebbe in seguito un certo sviluppo, soprattutto nel settore delle stampe a tiratura limitata per collezionisti, e dopo “Airconditioning” s’è visto un po’ di tutto, dal vinile con stampate sopra le note che normalmente vanno nella copertina a dischi incisi su un solo lato e con, nell’altro, graffite delle figure e/o delle ‘formule ermetiche’.
Proseguendo giungiamo al 1975 ed al famoso album doppio di Lou Reed “Metal Machine Music”, che alla fine del quarto lato terminava con un solco ad anello chiuso, in modo che la musica assumeva l’aspetto di un loop protratto all’infinito. A partire dal 1977 anche Boyd Rice iniziò a lavorare su dischi con solchi ad anello chiuso, riprendendo anche l’idea della Radigue e progettandoli come lavori che andavano suonati in due o più giradischi contemporaneamente. Lee Ranaldo dei Sonic Youth riprese il testimone in “EVOL” dove l’ultimo brano (Expressway To Yr Skull, chiamato anche Madonna, Sean, And Me / The Crucifixion of Sean Penn) riprendeva quel leit motiv. Facendo affidamento su queste basi lo stesso Ranaldo realizzò poi il suo piccolo capolavoro, “From Here —> Infinity” (SST, 1987), nel quale tutti i brani terminavano ad anello chiuso. Questo era in realtà un concetto simile al trick-track, dal momento che i vari brani non erano comunicanti fra di se e che l’inizio di ognuno andava cercato manualmente, con la differenza che la loro disposizione era in serie invece che in parallelo.
È invece storia recente il disco “Liederliches Und nichtiges Von Joke Lanz und Rudolf Eb.er”, dove lo scorrimento della puntina è opposto rispetto ad un disco normale, cioè va dal centro verso la periferia.
Come vedete non solo si è tornati a produrre del materiale in vinile, ma si è anche ricominciato a cercare soluzioni di tipo inconsueto.
«Stasera voglio farti un regalo
che ti faccia ricordare
chi scordarti non sa.
Ho sentito questo disco suonare
l’ho comprato per te,
perché pensi un poco a me.
Questo disco è il mio pensiero d’amore
per te, per te.
Ogni volta che lo senti suonare
pensa a me, a me.
Accetta questo regalo
se il mio amore non vuoi questo almeno vorrai. Un regalo non si butta mai via,
quando sola resterai
potrà farti compagnia.
Questo disco è il mio pensiero d’amore
per te, per te.
Anche se non potrà farti tornare
con me, con me.
Come passi adesso le tue serate
cosa fai, con chi sei
sei felice con lui?
Ma se un dubbio ti riporta al passato
dove sono lo sai,
puoi chiamarmi se vuoi.
Questo disco è il mio pensiero d’amore
per te, per te.
Ogni volta che lo senti suonare
pensa a me, a me».
Questo testo autoreferenziale cantato negli anni ’60 da Mal dei Primitives risale ad un’epoca d’oro per il disco in vinile, un’epoca nella quale regalare un disco aveva lo stesso valore del regalare un libro, un’epoca in cui esistevano dischi che si adattavano ad ogni situazione: dalla dichiarazione d’amore, alla recriminazione per un tradimento, alla dimostrazione d’amicizia… questo perché il disco in vinile è stato qualcosa di più del semplice contenitore di musica, è stato il testimone di un’intera stagione, il compagno fedele di feste ed innamoramenti, un amico da portare a casa, togliere dalla busta con circospezione e custodire con affetto e gelosia…. qualcosa che il disco compatto – sia che sopravviva all’assalto dell’iPod e al ritorno del vinile sia che sparisca ineluttabilmente di scena – non è mai riuscito ad essere e non sarà mai.
Esiste sicuramente anche un CD dotato di un suo valore artistico, con confezioni particolari, limitate e/o multiple, e sono possibili anche giochetti di carattere tecnico (per ascoltare il CD “Mais d’où viennent tous ces chinois” dei Sun Plexus è necessario far scorrere il LED del minutaggio all’indietro fino a circa -30 minuti), ma sono comunque limitati ed il funzionamento è comunque piuttosto asettico, non vedi il supporto, e osservare il braccio del giradischi che scorre dall’esterno verso l’interno (o viceversa) è tutt’altra cosa. È comunque possibile che il supporto digitale possa andare incontro a dei miglioramenti, come è successo per il vecchio disco analogico, soprattutto tesi ad arginarne la deperibilità, ma sembra proprio che la diffusione di massa della musica come prodotto di consumo si stia indirizzando verso tutt’altre soluzioni. E intanto mi giungono continuamente nuovi segnali sul fatto che gli appassionati di musica, in drastica riduzione di numero, quando è possibile comprano il vinile mentre quando non è possibile preferiscono scaricare gratuitamente.
Concludo con un’osservazione, comunque implicita in quanto già scritto, riguardante il fatto che il CD non rappresenta affatto un’evoluzione del vinile ma, caso mai, un’evoluzione della musicassetta, allo stesso modo in cui il DVD rappresenta un’evoluzione della videocassetta e non della pellicola cinematografica ed allo stesso modo in cui la rete informatica rappresenta un’evoluzione dei vecchi sistemi di trasmissione via cavo (telefonia) e/o via etere (radio-televisione) e non della stampa e/o della scrittura su carta. Fate un attimo mente locale e vi accorgerete che le caratteristiche ed i modi d’uso del CD sono infatti più o meno quelli della vecchia musicassetta e non quelli del vinile. Ad essere cambiati sostanzialmente sono i rapporti di forza fra i tre grandi sistemi di diffusione della musica: tramite cavo od etere, tramite supporto magnetico o digitale e tramite supporto in vinile. Mentre in passato il sistema principale di diffusione era il vinile, probabilmente seguito dalla musicassetta e dal sistema radiotelevisivo, oggi la rete informale sembra in grado di assicurarsi il primato, seguita dal supporto digitale e dal vinile quale fanalino di coda. Ma forse è proprio grazie a questa mancata evoluzione che il vinile sopravviverà ancora a lungo, seppure soltanto presso una piccola cerchia di appassionati paragonabile agli ‘amici del cinema’ od ai ‘filatelici’.