Ampio excursus nei pensieri di Mr Setola di Maiale: abile percussionista, compositore e fondatore dell’etichetta-manifesto che da poco ha varcato i quindici anni di attività.
Di Sergio Eletto
elettosolare@yahoo.it
Quella che presentiamo ai lettori di Kathodik è una ricca conversazione con Stefano Giust: compositore, improvvisatore, percussionista, produttore appassionato da tanti anni ad uno sviluppo concreto e di classe dell’improvvisazione. Un elemento inteso ed esposto non solo mediante canovacci d’estrazione jazz e/o free, ma ‘controllato’ come un’artista astratto, a 360°. La sua creatura discografica, Setola di Maiale, da oltre quindici anni, si contraddistingue come una delle etichette indipendenti più policrome, costanti e coerenti del panorama nostrano e non. Ho pensato che per l’occasione, conosciuta l’enorme propensione di Stefano a tuffarsi in lunghe chiacchierate (a dir poco infinite), sarebbe stato più utile e avvincente consegnare il campo quasi del tutto alle sue parole. La conoscenza del proprio mondo avviene attraverso i propri pensieri, in maniera esaustiva, simpatica e sicuramente riflessiva. Ovviamente, si parte dalle prime battute e dai primi esperimenti nel campo musicale, arrampicandosi di seguito nel discorso tra i lavori più interessanti e le relative collaborazioni. Viene concesso ampio spazio anche ai progetti prodotti&supportati nei confronti di altri performer, mediante l’azione propulsiva di Setola.
Catapultatevi liberamente dentro il mare magnum di queste animosi ragionamenti. Rimarranno impressi per diversi fattori, quali l’autenticità, il vasto approfondimento di ogni singola materia esplorata, per il piglio ribelle e anti-conformista, ed infine, per l’ottima musica trattata.
Sarebbe bello avviare questo viaggio con uno (sterminato) zoom sulle origini, quelle più incavate nei ricordi della tua, estesa carriera. Conoscere i primi materiali registrati; quali emozioni brandivano e se erano implicati in una dimensione percussivo – acustica che privilegiava matrici jazz e/o improv. Cosa ci sveli?
Ho iniziato a registrare da solo con il nome Opera, era circa il 1982. Avevo quattordici anni ed ero già interessatissimo alla sperimentazione; avevo scoperto Throbbing Gristle, Einsturzende Neubauten, Tuxedomoon, i gruppi di ‘No New York’, tutta la prima scena industrial ultra sotterranea che autoproduceva cassette; e poi un disco di Anthony Braxton in duo con Joseph Jarman dal titolo “Together Alone” per la Delmark Records: un album che mi ha letteralmente aperto la testa in due; e poi John Cage, Stockhausen…
Era del tutto naturale per me stare il più tempo possibile in camera mia e trafficare con le cose alla mia portata: avevo una batteria, una chitarra acustica che preparavo e amplificavo / distorcevo attraverso lo stereo con un microfono infilato dentro, oggetti vari… qualche volta andavo da mio zio e registravo il pianoforte. Tecnicamente non avevo il quattro piste a bobine o a cassette, registravo con due normali registratori portatili: in uno facevo una prima registrazione che poi facevo risuonare, mentre con un altro registratore riregistravo lì accanto quella prima traccia a cui ne aggiungevo un’altra al volo, e così via… poi avevo scoperto anche che utilizzando cassette al cromo o al metallo, se non li riregistravi utilizzando il pulsante per questo tipo di nastri, la traccia originale non veniva cancellata da quella successiva ma si sovrapponeva, così potevo fare ulteriori sovraincisioni… alla fine e con questi sistemi ho prodotto in quegli anni cinque cassette, o più propriamente cinque albums in cassetta, di cui gli ultimi tre con il nome Opera, pubblicati dalla Old Europa Cafe, che al tempo produceva cassette di musica sperimentale. In quel periodo ho partecipato a numerose compilation su cassetta per varie etichette dedite a queste musiche, circa dieci brani sono presenti in altrettante compilazioni internazionali di quel periodo quali “Il Pranzo di Trimalchione” (Acteon, Annecy, Francia), “Never Heal Vol.1” (Harsh Reality Music, Memphis, USA)…
Parallelamente suonavo la batteria in gruppi rock-noise che a quei tempi non si definivano neppure così… mi piacevano i Sonic Youth, gli Swans… poi nel 1987 è arrivato il gruppo con cui mi sono fatto davvero le ossa: Le Bambine che, a dispetto del nome frivolo, era vicino ad una estetica hardcore, poi via via più incline ad una idea di art rock che ha inglobato in varie fasi elettronica, free jazz, improvvisazione; abbiamo pubblicato tre LP e suonato un sacco di concerti, molte spalle come il primo tour dei Primus in Italia, poi Fugazi, Fishbones, D.O.A., Verbal Assault, Negazione, Silverfish, Murphy’s Law, The Haters… Sul finire di quella esperienza è nata Setola di Maiale – era il 1993 – dopodichè ho chiuso con il rock e mi sono interessato totalmente alla musica di improvvisazione, al jazz d’avanguardia, alla musiche contemporanea, etc. Non ne potevo più del rock, delle canzoni strutturate, anche se è pur vero che l’improvvisazione fa parte della mia estetica da sempre, fin dai tempi di Opera.
…oppure, come suppongo, sin da subito ti sei appassionato e dilettato allo studio ‘globale’ della musica moderna; cimentandoti, con un impregnato spirito indagatore, all’esposizione di linguaggi altri, quali improv, elettro-acustica, elettronica minimale e quant’altro…
Concordi? Ci diresti la tua?
Sì è vero, sono sempre stato attratto dalle idee nuove e dalle musiche innovative. Non c’è un unico linguaggio che mi interessa, se non quello della contemporaneità. Quello che mi è sempre interessato è focalizzare bene la strumentazione da utilizzare, o i musicisti con cui collaborare, e sulla base di questo vagliare tutte le possibilità. É per questo che la mia produzione è stratificata, ma non eclettica (lo sarebbe se suonassi reggae, rock’n’roll, blues, jazz, etc. in modo standardizzato), mentre il mio approccio resta fedele alla mia visione musicale, sia essa acustica, elettroacustica, elettronica, acusmatica, improvvisazione radicale, etc. Mi piacciono situazioni e strumentazioni differenti e non mi piace ripetermi; lavoro ad un album che avrà le sue caratteristiche, le sue logiche, sviluppo quello che mi interessa e poi stop, passo ad altro, questo mi eccita terribilmente, mi appassiona. É il motivo per cui i miei dischi ‘in solo’ sono tutti diversi uno dall’altro, pur avendo un denominatore comune, cioè il mio modo di lavorare e la mia estetica. La stessa cosa vale per i dischi nati dalle collaborazioni che ho avuto con altri musicisti. Certamente ho pagato, pago e pagherò ancora il prezzo di rendermi difficile da catalogare. Pazienza!
Il fatto di aver sfidato l’ingresso nella musica da totale autodidatta (giusto?) ha facilitato quel continuo slegarsi da etichette pre-stabilite e schemi rigidi invalicabili?
Credo di sì, nel mio caso mi ha reso un musicista sicuramente libero, ‘open’, svincolato come tu dici da indottrinamenti; per così dire, non ho subito le convinzioni di maestri stressati. Però questa non è una regola, ci sono musicisti che hanno studiato molto duramente al conservatorio – anche italiano – e la loro testa è priva di ottusità, viceversa altri autodidatti si dimostrano chiusi… non c’è una regola, se hai qualcosa da dire lo dici e basta.
Man mano che il nostro dialogo avanza, un’occasione interessante sarebbe quella di analizzare in maniera certosina determinati lavori e progetti che per te ‘suonano’ di basilare importanza nel prosieguo della carriera. Alla bisogna, mi attirava l’idea di conoscere maggiormente la dimensione studiata nel solitario “Musiche delle Circostanze”. Lo trovo un disco davvero ingegnoso, fluido e dove si percepisce una velata risonanza del minimalismo di scuola americana à la Steve Reich e La Monte Young. Ma ancor di più, ho percepito una struttura del tutto peculiare da cui spunta una visione idealista dell’intimità che riporta ad un grande maestro come Erik Satie; a cui, tra l’altro, dedichi proprio il primo ‘atto’. Cosa puoi dirci, quindi, di più interessante e solido riguardo l’intera struttura emotiva e la scelta strumentale, nella quale compaiono percussioni non-comuni come xilofono, marimba, vibrafono…
I compositori che citi mi piacciono molto e certamente avranno influenzato la musica di quel disco. Avevo voglia di un lavoro fatto di pochissime note, dalle strutture immediate. Riducendo il numero delle note di un brano – ogni pezzo infatti ha dalle 6 alle 8 note al massimo, che vengono suonate liberamente e spesso sono reiterate in piccoli motivi aperti alle variazioni ritmiche – arrivi quasi per forza vicino a Reich, ancor più se utilizzi quel tipo di sonorità strumentale. Poi quel disco è un mio personale tributo alla musica pianistica di Satie, un musicista di una attualità impressionante che ho sempre amato! Ma le similitudini finiscono qui. Tutta la musica di quell’album è improvvisata, non sono composizioni come quelle di Reich o Satie. Trovate le note che gradivo, attaccavo il registratore e improvvisavo la musica.
In effetti è sempre importantissimo distinguere tra composizione e improvvisazione: sono queste le due grandi famiglie che dividono la musica in una classificazione che è l’unica ad avere realmente senso. Come ascoltatori ci dobbiamo rendere conto che sono due cose diametralmente opposte. Nella prima c’è tutto il tempo di decidere cosa deve avvenire nella musica, nella seconda c’è a disposizione solamente un attimo, quell’istante irripetibile, magico e importante, in cui fare la cosa ‘giusta’.
Passiamo ora in ambiti, diciamo, più elettronico-oltranzisti. Volevo chiederti del duo che condividi con Daniele Pagliero. Il materiale fuoriuscito da “Ipersensity” risulta alquanto duro, hi-tech, elettronico nel senso più autentico del termine. Colpisce, facendo vibrare pelle&anima anche per l’interscambio compositivo-strumentale che s’innesta tra entrambi. Al riguardo, si legge che tutte le sessions sono totalmente improvvisate, secondo la migliore logica del real-time, creando una continua connessione tra i samplers e gli electronics di Daniele con i tuoi pads. Emotivamente, un pezzo come Dub Warhead è semplicemente divino e nella sua intrinseca personalità si ode passione recondita per i suoni à la Autechre e per materiali che potrebbero uscire dalla Chain Reaction più allucinata e ricercatrice…
Una immersione da parte tua nel lato tecnico e umorale di questo duo renderebbe più chiarezza e giustizia a queste musiche con l’animo ‘maledettamente’ oscuro e saturo di (sofisticata) complessità nella tessitura dei ritmi.
Non resta che sentire un tuo parere…
”Ipersensity” è un progetto nato nel 2000 a cui tengo molto, anche perchè il modo che abbiamo di lavorare è davvero originale nel panorama elettronico contemporaneo: fatto com’è di laptop, sequencers, etc.
Il progetto è organizzato così: Daniele invia tramite collegamenti midi dei suoni suscettibili di variazioni ad otto pads elettronici che io suono utilizzando le bacchette. In questo modo le scelte operate da uno si riflettono sull’operatività dell’altro. In pratica il suono (altezza, timbro, volume, attacco) di ciascun pad può cambiare o solo alterare in qualsiasi momento e analogamente anche la mia percussione di quei suoni può variare, secondo una sensibilità/necessità tipica in un duo di improvvisazione libera. C’è qui uno strettissimo rapporto tra sviluppo sonoro e movimento ritmico: solitamente dipendono da un singolo musicista che può controllare entrambi sul proprio strumento (pensa ad esempio ad un contrabbassista che con il suo strumento decide tutto: quali note fare o quali suoni produrre, la loro intensità, l’attacco, il ritmo, etc.) mentre in questa peculiare circostanza sottostanno a due musicisti distinti (Daniele controlla lo sviluppo sonoro, io sviluppo il movimento ritmico).
Il prossimo disco – il terzo, che stiamo per registrare – sarà un ulteriore passo in avanti rispetto a quanto fatto fin’ora: un programma di intelligenza artificiale controllerà quello che faccio sui pads, elaborando in tempo reale le varianti da sottopormi in funzione di quello che sto facendo in quel momento (in pratica improvviserò con una macchina intelligente) mentre Daniele sarà più libero di lavorare su campionamenti ed aggiunte di materiali anche esterni durante l’improvvisazione, sarà cioè più smarcato dal dovermi seguire passo passo (cosa che per altro riusciva incredibilmente a fare anche prima!). Insomma, mentre io suono, Daniele controlla: intonazione, tempo di attacco del suono, durata del suono, parametri di sintesi, campionare/suonare il campione a diverse velocità, ricampionare lo stesso campionamento più volte, tutto questo in tempo reale con un’unica interfaccia! Max/msp è geniale. La musica che produciamo si inserisce certamente nella famiglia della nuova musica elettronica, per così dire legata anche a certa techno sperimentale evoluta.
Tu dici “musiche con l’animo maledettamente oscuro”… sì è vero, direi anche “no future”: è per la gravità dei fatti del mondo, un tema ricorrente nei nostri dischi, cioè la consapevolezza del controllo che il potere economico/politico/militare – gestito da una ristrettissima elite – esercita sugli individui di tutto il mondo, che sono manipolati e resi schiavi da una infinità di reti: mass media, associazioni segrete, chiese e religioni, partiti politici, banche, etc. Non è più paranoia, non è più teoria del complotto: è tutto vero, documentato: un ristretto numero di bastardi controlla la nostra esistenza su tutti i livelli, e lo ha sempre fatto, prima con i Re ora con la Nestlè… Solo per fare un esempio, non si può più dire che le ‘scie chimiche’ (chemtrail) sono frutto dell’immaginazione di qualche paranoico in cerca di suggestioni orwelliane: esistono foto, documenti, testimonianze, sono fatte con polveri di bario, alluminio, filamenti di silicio… tutte cose tossiche per gli esseri viventi. Se si hanno dei dubbi sulle cose che ci accadono intorno, anche solo un ragionevole dubbio, vale la pena approfondire queste cose – con internet è abbastanza facile. Bisogna liberarci da questa realtà opprimente che nulla ha a che fare con la vita e le aspirazioni di noi esseri umani.
«E quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare»
Dal motto combattivo dell’immortale John Belushi, partiamo per descrivere il tuo (vostro) stato d’animo ‘ribelle’ e critico che sciama fuori durante la discussione in/per “Ipersensity”. In quella sede affermavi che:
«… un tema ricorrente nei nostri dischi, cioè la consapevolezza del controllo che il potere economico/politico/militare – gestito da una ristrettissima elite – esercita sugli individui di tutto il mondo, che sono manipolati e resi schiavi da una infinità di reti: mass media, associazioni segrete, chiese e religioni, partiti politici, banche, etc. Non è più paranoia, non è più teoria del complotto: è tutto vero, documentato: un ristretto numero di bastardi controlla la nostra esistenza su tutti i livelli…»
Da ciò sorge spontaneo e d’obbligo chiederti di ampliare (AMPLIFICARE) questo ardente-stato di rivolta, di espressione contro-radicale che mediante la musica, l’improvvisazione anche più cruda e istantanea, azioni contro un insieme di elementi che racchiudiamo sotto l’agognato termine di sistema…
Dopodichè, sarebbe curioso conoscere se esistono progetti precisi che nascono e in cui ci si cimenta, da parte tua e di altri compagni, con più affezione ad una causa/forma militante e di protesta.
Non proprio direttamente in questo senso – anche se la considero una lodevole forma e arte di protesta – ma sono rimasto folgorato dall’impro-action che insieme a Marino Josè Malagnino hai tirato fuori nel contesto de L’Amorth Duo.
E’ significativo e merita una riflessione (possibilmente da te ampliata) sulla ‘richiesta d’attenzione’ che ponete come mood centrale del combo:
«… riporta(re) alle orecchie un mondo che all’apparenza si conosce, ma appena confuso, non si riesce ad individuar più…».
Musica e società… beh, la situazione di estremo disagio che vive il mondo contemporaneo è sotto gli occhi di noi tutti: la politica non ha dato le risposte ai sogni che ha alimentato, l’economia continua a fare i suoi interessi malati come ha sempre fatto, il costo della vita lievita continuamente, gli intrattenimenti culturali sono penosi e di qualità bassissima, l’integrazione razziale è un miraggio, l’ignoranza esponenziale calpesta le persone di ‘buon senso’ (non l’ignoranza dovuta alla mancanza di buone letture, ma quella che risulta dalla manipolazione pubblicitaria e dalla televisione che entra nelle case di tutto il mondo).
La domanda che penso sia lecito porsi dovrebbe essere: perchè tutto questo?
Condivido appieno l’opinione secondo la quale c’è qualcosa di profondamente perverso e attentamente orchestrato dietro a tutta questa situazione e, cosa sconvolgente, fin dalla notte dei tempi. Ad esempio chi ha deciso – e sulla base di cosa – chi dovesse diventare aristocratico e padrone delle terre su cui far lavorare il popolo? Chi c’era dietro la rivoluzione francese? Chi c’è dietro la Comunità Europea? Ecco alcune domande che credo siano importanti, alle quali la scuola o emeriti ‘intellettuali del sistema’ risponderanno con emerite ‘cazzate’ a cui loro per altro credono ciecamente. Possibile che le religioni più importanti del mondo siano alla base degli attriti sociali e della xenofobia? Se si leggono libri non scolastici, si viene a conoscenza che tutte queste religioni sono state, né più né meno, che delle invenzioni per controllare i popoli e tenere a freno quello che è nella natura umana: la vocazione alla libertà, all’amore… mentre quello che fanno è alimentare l’odio, l’intolleranza, la violenza, mascherando il tutto con l’ipocrisia. Ma secondo te le cattedrali ti sembrano ‘posti normali’? ‘Tranquilli’? Manifestazioni della gioia di vivere? Con tutti quei simboli massonici, quella tristezza e quel dolore continuamente espresso?! Qualcuno vuole impossessarsi delle ragioni degli esseri umani, questo è quanto, e personalmente lo trovo palese! I governi lavorano contro gli esseri umani, è tangibile! I mass media, le grandi società industriali, sono controllate da poche persone che si tramandano la gestione all’interno di lobby ben organizzate, e tutto a noi pare democratico, libero… e già… come la libertà d’espressione… ma allora perchè i mass media amplificano sempre i pensieri e le personalità più futili se non imbecilli? Ci rispondono che questo è quello che vuole la gente! Balle! La gente è stata educata ad accettare incondizionatamente queste cose, a non scegliere, a non ricercare, a non essere padrona di sé stessa… Sono cosciente che è pericoloso dire tutte queste cose, i controllori non mancheranno di aggiungere queste note alla mia scheda… e sì, perchè non ci sono solo le telecamere nelle strade a monitorarci come pecore…
La gente si arrabbia perchè i writers imbrattano – secondo loro – le mura delle città o le fiancate dei treni… ma si arrabbia forse per tutte le insegne pubblicitarie che vengono imposte a tutti noi e che opprimono il nostro orizzonte visivo – e che per giunta consumano in molti casi corrente elettrica – e poi la società che la fornisce ci viene anche a dire di usarne poca nelle nostre case, perchè non è illimitata?! Così – anche se non amo particolarmente questi linguaggi artistici – io difendo i writers, anche i più scarsi, perchè è un pezzo di giovane umanità che si sforza di dire la sua, e a me questo piace in un mondo in cui chi lo fa, è perchè paga una stupida tassa.
Mi chiedi se ho un gruppo politicizzato: rifiuto questa parola, è priva di significato, sono solo slogan vecchi ed ereditati, fatti per dividere la gente. La musica ha in sé tutti gli elementi per essere un pensiero critico, la musica è pensiero! Lo è stata l’avanguardia del secondo dopo guerra, lo è la musica creativa… se c’è una cosa che voglio comunicare con la musica che ho suonato fino ad oggi è proprio questa: sgombrare la mente, apertura senza filtri, abbandono al cosmo, comunione… (a scanso di equivoci: non sono seguace della New Age!).
L’Amorth Duo è certamente tutto questo, denuncia, rabbia, tenerezza. Una musica che accetta lo stereotipo è condannata alla morte, magari ti arricchisce economicamente, ma è reazionaria per definizione, ed anche molta musica sperimentale oggi lo è, perchè non sperimenta linguaggi diversi ma si incammina in sentieri già tracciati.
Sostando ancora in territori ‘rurali’ prossimi a L’Amorth Duo, non può che sobbalzare alle orecchie quel magico sapore di black music, di Jazz con la J maiuscola, che s’inala mediante un campionario di armonie decisamente particolari nei vari frangenti delle improvvisazione in quel dell’Hybrida Space.
Personalmente, ho pensato tantissime volte, per via delle percussioni ai rintocchi dell’ART ENSEMBLE OF CHICAGO, a “Compulsion” di Andrew Hill (pianista che amava molto la scuola di Malachi Favors), a Cecil Taylor…
E’ proprio questo alone impalpabile di tradizione free che, mischiato alle manipolazioni ‘casalinghe’ dominanti, forma seriamente un compiuto manifesto di sana e inviolabile improvvisazione ‘futuristica’.
Sinceri complimenti… tu cosa ci racconti a riguardo, sei d’accordo con gli echi AACM?
E’ bello che questa affinità, per quanto sottile, traspare… ovviamente amiamo L’Art Ensemble of Chicago, Cecil Taylor, i tanti i musicisti storici dell’AACM… la nostra musica deve sicuramente moltissimo a loro e in qualche modo ne è figlia certamente, ma anagraficamente siamo diversi e conseguentemente anche le sonorità che inglobiamo sono diverse, perchè le stratificazioni culturali dei nostri giorni sono progredite e tutti i riferimenti che servono come fondamento del fare musica oggi, si sono arricchiti di nuove possibilità rispetto agli anni sessanta/settanta e noi ne teniamo conto naturalmente, perchè non siamo dei nostalgici, non suoniamo jazz ma qualcosa che lo ingloba, questo assolutamente sì.
Quello che ci accomuna ai maestri che citi è l’attitudine alla rivoluzione culturale, la curiosità, la sperimentazione; abbiamo la stessa urgenza espressiva. Marino è giovanissimo, abbiamo età decisamente differenti, ma a dispetto dell’età ha una maturità ed una capacità di introspezione assolutamente fuori dall’ordinario, è una persona brillante e intelligentissima, è stato molto bello condividere il tour che abbiamo fatto a maggio.
Con l’ingresso in campo del trio che condividi con Lorenzo Commisso (laptop audio) e Alan De Cecco (laptop video), Papiers Collés, entra in campo un terzo fattore nella costruzione della musica, le immagini e, quindi, l’elemento audiovisivo.
Scansando l’andatura architettonica del gruppo, quello che si percepisce dall’ascolto di “Live in Villa Manin” sul MySpace è una musica vasta, con sotto delle sfumature d’elettronica reiterate, minimali, fragili, subacquee, delicate; ma comunque ben disposte all’armonia contemporanea. Ed è in ciò che primeggia come indubbio principe-dei-giochi il fattore ritmico, con i continui giochi di contrasto e contro tempistica che fagocitano (e fagociti te) in vena-libertaria da sopra. Bellissimo, misterioso e come sempre elegante.
Papiers Collés è un progetto artistico nato nel 2004 con l’intento di far convivere estetiche differenti e cronologicamente distanti nel tempo. Musicalmente quello che ci interessa fare è trasformare frammenti di musica classica in composizioni nuove e irriconoscibili, anagrammi musicali che rappresentano un’interessante riflessione sulle potenzialità del suono. Azione (batteria) e staticità (digital sound) si contrappongono nelle nostre performance, come anche le culture da cui provengono, musica di improvvisazione contemporanea ed elettronica. Il progetto usa con estrema libertà elementi estetici differenti, al fine di mettere in discussione le abitudini concettuali del senso comune, giocando su cosa è reale e cosa non lo è, cercando di sottolineare le varie sfumature e possibilità di riflessione, ricevute dalla riproducibilità tecnica che caratterizza il nostro fruire artistico contemporaneo.
Non è per caso che dal vivo ci vestiamo con camicia bianca e cravatta nera, ed anche pantaloni e scarpe nere. Lo facciamo per ragioni formali ben precise: quel modo di vestire ci rende irriconoscibili rispetto al tempo storico: nei secoli scorsi gli artisti, gli scrittori, i musicisti, tutti venivano ritratti o fotografati vestiti in questo modo, in bianco e nero, era quella la maniera di presentarsi, la fotografia non era a colori… così vestendoci ci ritagliamo uno spazio a-temporale, perfetto per le citazioni alterate che continuamente includiamo nel nostro lavoro.
La musica di Papiers Collés è molto libera, ma ci sono delle strutture organizzate su cui io improvviso ed alle quali devo prestare sempre molta attenzione. Dal vivo abbiamo suonato soprattutto in gallerie d’arte; Lorenzo è un artista visivo, così come Alan, e sono entrambi bravissimi, con all’attivo diverse mostre e collaborazioni; io stesso amo da sempre l’arte visiva, da anni mi occupo anche di graphic design. Il lavoro visivo di Alan – tutto materiale da lui filmato o sintetizzato con programmi informatici – tiene conto dei primi esperimenti del cinema surrealista e delle nuove tendenze dell’avanguardia; collabora anche in contesti diversi, come ad esempio dj-set di Stewart Walker.
Volevo chiederti di parlare circa le ultime uscire di Setola di Maiale, come ad esempio Those Lone Vamps, in cui compare l’elemento voce incarnato da Shawn Clocchiatti-Oakey impegnato, tra l’altro, anche alla chitarra acustica. Purtroppo non ho ancora sentito il lavoro in questione ma anche una tua vertenza attorno al mondo del blues (sempre secondo un’ottica ‘altra) mi farebbe molto piacere avvenisse.
”Black Taper Taiga” è nato in seguito ai dischi fatti su Setola di Maiale dei Those Lone Vamps. Da questo contatto è nata un’amicizia che è poi sfociata naturalmente in questa collaborazione. Si tratta di musica totalmente improvvisata ed aderente alle estetiche di ciascun musicista del trio, che spaziano dalla musica sperimentale al blues. L’idea è stata infatti quella di registrare in studio del materiale che avesse la parvenza di “canzone” e che riflettesse quelle estetiche, seppur stravolgendole. Chitarra elettrica, batteria, qua e là chitarra acustica, una base techno-blues allucinata e la voce imponente di Shawn… questi gli ingredienti strumentali.
Il mio rispetto per il blues è scontato, anche se non ascolto musica che può definirsi propriamente blues, piuttosto se ne avverte l’eco. Probabilmente le cose più blues che ho ascoltato sono Tom Waits ed i primi albums di Nick Cave, o alcuni musicisti africani o cose molto vecchie, mentre il blues più convenzionale che si suona oggi non mi piace per niente, è come il reggae, mi pare musica chiusa in se stessa senza possibilità di evolvere in qualcos’altro, interessata a rispolverare idiomi musicali già acquisiti. Those Lone Vamps è un ottimo progetto di musica non convenzionale dalla forte personalità, totalmente immersa nella cultura e nell’immaginario del blues. Shawn e Vincent hanno ottime conoscenze musicali a 360 gradi e questo li ha portati ad avere una visione poco ortodossa del fare musica, aperta a suggestioni “altre” e sperimentali, e questa è la ragione per cui sono presenti nel catalogo setolare, hanno spezzato dei cliché. I testi sono molto importanti nel loro progetto, lo stesso shawn è un poeta che ha pubblicato – con il suo vero nome (credo non voglia sia accostato al suo fare musica) – due libri.
Un altro lavoro ‘Setoliano’ piuttosto curioso è “Assortimenti N 1-5”. Il ‘sottotitolo’ è alquanto significativo, perché recita: «Music For Drums and Sampled Orchestra». Credo sia la prima volta che trovo dinanzi un simile esperimento dove a sovrapporsi in crescendo sono campionamenti&samples di (esclusiva) origine-matrice sinfonico-orchestrale. Narreresti con piacere l’humus celato dietro un tale complesso che potremmo, neanche tanto ironicamente, battezzare come ‘nuova musica classica’?
Il progetto nasce dalla collaborazione che ho avuto con Ben Presto, alias Patrizio Pica. Ci siamo conosciuti nel 2000 in occasione dell’Off Festival al Leoncavallo di Milano, ed è da allora che abbozzavamo l’idea di collaborare insieme… Il disco parte da registrazioni in solo di batteria, suonata free e in maniera abbastanza ‘piena’; voglio dire portando al minimo le parti di colore e di suoni piccoli, proprio per dare da subito una direzione del tutto particolare al montaggio successivo che Ben Presto avrebbe fatto con i suoi campionamenti di musica classica contemporanea (sinfonica e di piccoli organici orchestrali). Quello che volevamo evitare era l’ennesimo risultato di ricerca pseudo-post-weberniana, tutta incentrata su timbri e silenzi… Ne è uscito un lavoro contemporaneo dai tratti decisi, raffinato e nervoso. Ben Presto ha fatto un lavoro eccellente! Ed è una persona meravigliosa!
Visto che prima nel parlare è varcato fuori il mood di T. L. V., potresti spingerti in una panoramica sui lavori prodotti di recente, collegati principalmente ad altri artisti. Il catalogo di Setole di Maiale, oltre ad essere apertamente eterogeneo, vede scorrere figure importanti del jet-set nostrano e internazionale. Penso a Joëlle Léandre, al disco di Logoplasm e Punck, ancora a Ben Presto (ed in particolare al recente “I Placca”), al circuito impro-pugliese dell’AFK di Vito Maria LaForgia & Co…
Cielo, non saprei da dove cominciare!! I nomi che poni sono tutti interessanti alle mie orecchie e ai miei sensi. Ogni disco prodotto è vissuto con amore e gioia… I progetti in cui sono coinvolto in prima persona son tutti importanti per me, non ho mai preso sottogamba un disco o un concerto in vita mia… Tengo moltissimo ai progetti di cui abbiamo parlato fin qua come L’Amorth Duo, Papiers Collés, Ipersensity, oppure ai dischi di altri musicisti su Setola, oltre ai nomi che citi nella tua domanda, penso a St. Ride, Duel (il duo di Massimo De Mattia e Denis Biason), il disco split con Jean-Luc Guionnet, Claudio Rocchetti, Fhievel, Luca Sigurtà; i dischi di Tiziano Milani, l’orchestra Improvirusoundexperience, l’album di Luca Sciarratta; le mie collaborazioni con gli amici dell’AFK Records; Margine (gruppo di parecchi anni fa con cui ho registrato quattro dischi in quartetto con gli Anatrofobia al completo), i dischi di Ninni Morgia e Jordon Schranz registrati a New York; i dischi in cui ho suonato in trio con i londinesi Andrej Bako e Karen O’Brien (Rediffusion) o in quartetto con l’aggiunta di Gareth Mitchell, con il quale ho anche un duo di cui uscirà un disco a breve…
Un progetto a cui sono affezionatissimo è Camusi, in compagnia di Patrizia Oliva alias Madame P. Ad ottobre abbiamo fatto 5000 km di tour in Francia, Spagna e soprattutto Portogallo, ed è stato bellissimo e ricco di consensi. Penso che la musica che facciamo sia molto innovativa e interessante nelle idee e nell’approccio, una musica che è totalmente improvvisata ma che può risultare così delineata che la gente quando ascolta il nostro disco tende a non credere sia frutto di improvvisazione libera. Patrizia è un’artista incredibile, di una sensibilità straordinaria. I suoi concerti sono sempre un’esperienza profonda ed emozionante, che sia ‘in solo’ come Madame P o con Camusi o con altri musicisti. Un nome, il suo, che dovrebbe essere portato sul palmo della mano dal giornalismo musicale italiano. Un altro progetto a cui tengo molto è il trio con Gianni Gebbia e Xabier Iriondo, con cui abbiamo fatto un tour in primavera e che cercheremo di ripetere… uscirà probabilmente anche un disco con le registrazioni dal vivo tratte da quel primo tour…
In generale, per me, parlare dei dischi prodotti da Setola è sempre complicato: mi piacciono tutti e li vivo tutti sullo stesso piano… tengo poi moltissimo alla veste grafica, alle carte da utilizzate… mi sforzo che risultino degli oggetti piacevoli e ben fatti!
Alcuni di questi albums hanno nomi di musicisti consolidatissimi, è vero, ma non è questo che ricerco con questa piccola realtà sotterranea: a me interessa la bontà culturale della musica da produrre, non i nomi altisonanti, e questo è sempre stato un punto importante per me a cui prestare fede, che mi regala chiarezza di giudizio e libertà di movimento.
É ovvio che mi da’ grande soddisfazione produrre un disco con certi musicisti, sarei un bugiardo se lo negassi, ma non è questo il punto d’arrivo. Ho sempre avvertito la consapevolezza che le vere novità stanno dietro ai nomi nuovi, o quelli che si muovono nel sottobosco, e dei quali spesso anche i nomi grossi e più intelligenti si nutrono. Quando le realtà sono così ai margini del mercato musicale, ogni lavoro nasce da stima reciproca, da amicizia, dalla condivisione di una comunità di musicisti, dove il fatto elitario o della nicchia non è ricercato per niente, piuttosto è una conseguenza di una cattiva, stantia e grassa circolazione culturale, non solo nel nostro paese.
Non mi stancherò mai di ripetere quanto male facciano quelle testate a scrivere dei soliti nomi, spesso stranieri che già occupano pagine su pagine in tutte le riviste. Non dedicare spazio ai musicisti italiani e snobbarli è non riconoscerne il talento, è render loro vita difficile quando cercano concerti, è abbandonarli a cachet sempre più poveri – addirittura ridicoli! – è suggerire implicitamente al pubblico di disertare i loro concerti, perchè questo è l’effetto che si produce inevitabilmente… e son tutte cose molto spicciole queste che dico, legate alla vita di tutti i giorni, alla sopravvivenza… ne vien fuori una fotografia impietosa della realtà concertistica e discografica italiana. Ad esempio non ho nulla contro i Talibam!, ma certo l’enfasi mostrata per questi americani è maggiore che per altri musicisti italiani che praticano quelle idee da decenni… così la gente và più volentieri a vedere questi nomi che altri italiani… la stampa produce questi effetti e se si vuole qualcosa di culturalmente diverso in questo paese, bisogna che tutti coloro che hanno qualche possibilità di muovere le acque lo facciano, e subito! E’ uno sfascio! Fortunatamente qualcosa si muove in questa direzione, come ad esempio l’ottimo festival romano Scatole Sonore e il network Tempia. Ora io non voglio sembrare un lagnoso e polemico essere umano – al contrario non sono per niente frustrato dalle mie scelte e condizioni, questo mi piace sottolinearlo – ma come ho detto prima la situazione è sotto gli occhi di tutti. Continuerò imperturbabile a fare le mie cose con la mia solita e serena disinvoltura, anche se le riviste cartacee in questo paese scrivono cose inesatte e approssimative sul mio conto o non scrivono affatto! Non vivo per loro, questo è sicuro. Il mio problema è che probabilmente ho ancora una visione romantica del fare musica, e così del giornalismo.
The Last Question. Un ultimo quesito per i lettori di Kathodik, diciamo anche di routine, vuole apprendere due cose: sia cosa ha entusiasmato Stefano Giust negli ultimi tempi, sia cosa ha riservato nel cassetto per il prossimo futuro. In generale, a 360°, enuncia lavori, collaborazioni, personali e non, produzioni ed etichette che ti colpiscono per il loro appeal, genuinamente, non conforme.
Penso che questo che stiamo vivendo sia un momento molto positivo e fertile per la creatività in Italia e vorrei poter documentare il più possibile tutto questo con Setola di Maiale; sono tanti i progetti in cantiere per quest’anno.
Ci sono anche molte etichette che mi piacciono o che semplicemente stimo per come lavorano e si pongono: Burp di Firenze, Chew-Z Netlabel di Torino, Wallace di Mirko Spino, AFK Records di Bari, Afe Records, Rudimentale, Bar la Muerte, Improvvisatore Involontario, solo per fare dei nomi…
Ho molta stima per musicisti come Vincenzo Vasi, Marcello Magliocchi, Gianni Gebbia, Tiziano Milani, Vito Maria Laforgia, il Jealousy Party, Gianni Lenoci, Xabier Iriondo, Lullo Mosso, Dominik Gawara, Cristiano Calcagnile, Daniele Pagliero, Francesco Cusa e mille mille altri…
Molte energie nuove si ascoltano ad esempio a Bologna, che ha una lunga tradizione di musicisti creativi; c’è il collettivo Gnù che include tra gli altri Dario Fariello, Chris Iemulo, Diego Cofone, Nicola Guazzaloca, Filippo Giuffrè; e poi la scena romana con Renato Ciunfrini, Davide Piersanti, Lendormin, A Spirale, Tiziana Lo Conte… e poi ancora nel nord, Claudio Parodi, Alessandro Buzzi, Airchamber 3, Anatrofobia, Claudio Rocchetti, Michele Selva, Punck, St.ride… sono tantissimi, tantissimi, altro che crisi della musica… ti dico un nome e me ne vengono in mente altri dieci… è fantastico!
Ecco, perchè penso che è buffo leggere su una rivista: ‘… wow, questo è il disco del mese o la nuova rivelazione dell’anno…’
Se comprassimo tutte le riviste in uno stesso mese troveremmo altrettanti gruppi dell’anno… poi che faccia piacere ai diretti interessati va bene, è altrettanto ovvio – a me ha fatto piacere quando Stefano Pifferi lo ha scritto su SentireAscoltare a proposito di Camusi – però non ci si deve prendere troppo sul serio insomma… davvero i musicisti (ed anche il pubblico in generale) dovrebbero dare meno importanza al giudizio delle riviste, anche se poi è importante per lavorare… purtroppo questo sì… ma chi è davvero onesto sa che non esiste il migliore, ce ne sono tanti di migliori, una marea di migliori, un po’ di umiltà non fa male e fa vivere meglio, molto meglio.
Collegamenti utili:
www.setoladimaiale.net
www.myspace.com/setoladimaiale
www.myspace.com/stefanogiust
www.myspace.com/camusi
www.myspace.com/amorthduo
www.myspace.com/papierscolles
www.myspace.com/ipersensity