Di Sara Marilungo
Non è facile parlare di un film come ‘Il Divo’, che io definirei un piccolo capolavoro. Perché ‘Il Divo’ è un film su Giulio Andreotti, certo, ma è soprattutto un film sul Potere, il potere politico, secondo solo al potere divino, ma che col potere divino in questo caso ha in comune almeno due cose: l’eternità delle sette legislature e la capacità di disporre della vita e della morte delle persone.
L’uomo definito la Sfinge, la Volpe, il Papa Nero, Belzebù, il Gobbo, il Divo, l’uomo uscito incolume dai processi di Tangentopoli, l’uomo sospettato di cadaveri eccellenti che assiste con lo stesso scaltro stoicismo alle morti di Calvi, Sindona, Pecorelli, Ambrosoli, Dalla Chiesa, Lima, l’uomo su cui gravano le ombre di piazza Fontana e piazza della Loggia, l’uomo a cui tutto scivola addosso. Tutto, ma la morte di Moro, come dirà il protagonista ossessionato dal suo fantasma, quella no.
Come mettere in scena questo potere? Come circondare un uomo silenzioso, gobbo, minuto, inespressivo di un’aura sacrale, rendendolo una figura intoccabile? Nel cinema non bastano i dialoghi, non bastano i fatti. Il potere di Andreotti, la storia di Andreotti, chi più chi meno, la conoscono tutti. Ma come esprimere che Andreotti non solo possedeva il potere ma che Andreotti era il potere in persona?
La rosa dei nomi che hanno trattato il tema del potere nel cinema è vastissima, basti solo pensare agli Ejzenstejn, i Kubrick, i Welles.
Inoltre, e soprattutto, Sorrentino ha alle spalle la stagione del cinema civile tutta italiana e tutta politica degli anni ’60 – ’70 di Rosi, Taviani, Petri, Ferrara, Bellocchio e altri. La sfida di fare un film dopo 30 anni su un periodo tanto cruciale quanto controverso e delicato della storia italiana con alle spalle un tale bagaglio di predecessori era un impresa titanica.
Ebbene Sorrentino ha raccolto la sfida e non delude le aspettative, anzi le supera: se con ‘Gomorra’ si è parlato di neorealismo-documentaristico, Sorrentino, forte della stagione di film che lo ha preceduto (si pensi a Crialese ma anche ad una certa cinematografia estera, ad esempio quella orientale), mette in scena un film che si potrebbe definire, paradossalmente e con le dovute cautele, neorealismo-surrealista, condito di espedienti di estetica pop (le musiche ad esempio, ma anche la fotografia, l’attacco ritmico d’impatto, i movimenti della camera) che rendono il film tanto sensibile alla tradizione culturale italiana nella drammaticità dei contenuti quanto esteticamente molto godibile nella tecnica avanguardistica.
Ecco allora la chiave, o una delle chiavi, di questo film: un’interpretazione del tema ancestrale del potere con un linguaggio cinematografico fortemente contemporaneo, che in fondo spesso è la ricetta dei piccoli capolavori.
Al di là comunque delle sistematizzazioni di genere, una tentazione inevitabile ma forse dovuta per un film come questo, il ritratto di Belzebù, il ritratto del Potere, non giustificherebbe la reazione astiosa che il vero Andreotti ha avuto dopo la visione del film se non fosse che, chissà, Andreotti ha reagito come re Claudio alla visione dell’”Omicidio di Gonzago”. Perché il personaggio che emerge dal film è pungente, scaltro, astuto, maligno (nel film manifestamente mafioso) ma anche profondamente umano, profondamente complesso e tormentato, afflitto da una solitudine amplificata dalle migliaia di persone che da uomo politico è tenuto ad incontrare, diffidente anche nei confronti dei compagni di partito ma devoto alla moglie, impenetrabile e metodico ma di fine ironia, che strappa allo spettatore un sorriso (mai un riso) e che lo coinvolge nella rete intricata di scelte politiche mai immediate nè assolute. Andreotti diceva: ”Non esistono né santi né peccatori, siamo tutti mediocri peccatori”. E tale in fondo è stato il suo personale aforisma divino che giustificava l’alibi machiavellico della ragion di stato. Il tutto imbastito nella fantastica interpretazione di Servillo, capace di comunicare tutto questo col movimento degli occhi, con lo sfregamento delle mani, grazie anche a una serie di primissimi piani quasi che la telecamera volesse entrare sotto la pelle del protagonista per vedere quanto c’è di umano sotto le rughe, dietro gli occhietti vispi, oltre la flemmatica andatura che cela un mondo brulicante di segreti, conoscenze, strategie.
Se c’è un giudizio storico del personaggio, certo non deriva da una semplificazione o da una mistificazione dei fatti. Da una spettacolarizzazione forse, ma questo è un vizio che il cinema (per fortuna) non si sa togliere.