Di Silvia Casilio
1968-2008. Sono passati quarant’anni da quando in tutto il mondo il Sessantotto fu.
Ricorre quindi nell’anno del Signore 2008 il 40esimo anniversario di quell’evento epocale e come tutti gli anniversari che si rispettano non potevano mancare convegni, libri, celebrazioni e quel che è peggio molti, moltissimi, troppi, libri celebrativi. All’appello hanno risposto quasi tutti: protagonisti del ’68, denigratori di quell’esperienza, oppositori politici, “pentiti”, reduci e giornalisti. Molte cose sono state dette. L’unico problema è che molte, quasi tutte, erano già state dette in occasione del decennale, ribadite nel ventennale e sottolineate nel trentennale.
L’impressione è che tutto sia già stato detto e scritto sui giovani che occuparono le università, sulla fantasia che doveva prendere il potere e che invece ne fu risucchiata, sulle donne che abbandonarono il reggiseno e sull’amore che doveva essere libero frutto di una libera scelta.
Eppure se ci sofferma a riflettere ci si accorge, non senza una punta di sconcerto, che in realtà mentre da ogni dove intellettuali più o meno onesti si rincorrevano per dire la loro verità su quei fatti, a tacere in disparte era la ricerca storiografica. Se si escludono i capitoli che Guido Crainz dedica al ’68 nel suo ‘Il paese mancato’ (Roma, Donzelli, 2005), l’ormai datato ma fondamentale ‘I movimenti del ’68 in Europa e in America’ di Peppino Ortoleva (Roma, Editori Riuniti, 1998), l’utile ‘Il sessantotto’ di Marcello Flores e Alberto De Bernardi (Bologna, Il Mulino, 2003) e il recentissimo ‘Il sessantotto: una breve storia’ di Marica Tolomelli (Roma, Carocci, 2008) c’è veramente molto poco.
A questa breve ma preziosa lista si aggiungono ora le 152 pagine firmate da Diego Giachetti (Pisa, BFS Edizioni, € 13,00). 152 pagine in cui lo storico torinese – non nuovo peraltro alle incursioni negli anni Sessanta – cerca di riflettere su quella stagione. Lo fa rifuggendo dalle banalizzazioni e dalle generalizzazioni che sempre si accompagnano alle campagne mediatiche promosse per riempire gli scaffali delle librerie. Senza soffermarsi ed indulgere sulla dimensione folklorica – appiattita sul peace and love, sulla libertà sessuale, sull’antiautoritarismo, sul pantalone a zampa di elefante, la minigonna ecc. –, le 152 pagine in questione indagano e ricostruiscono la storia del ’68 e dei conflitti che lo attraversarono. Al centro di queste intense 152 pagine c’è la storia dell’ondata contestataria che a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta dilagò in tutto il mondo, attraversando paesi differenti e modificando usi e costumi. Le categorie utilizzate per leggere questi fenomeni sono la generazione, il genere e la classe: conflitti sociali, culturali e politici che proprio tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo giunsero a maturazione.
‘Un sessantotto e tre conflitti’, quindi, che ebbe tra i suoi protagonisti principali le giovani donne e i giovani uomini nati nel secondo dopoguerra e cresciuti «all’ombra della bomba atomica». Se, infatti, dopo la seconda guerra mondiale i “padri”, impegnati nella ricostruzione di un’Europa dilaniata dal conflitto e dalle barbarie perpetrate dal nazi-fascismo e di un mondo diviso in blocchi ideologici dalla guerra fredda, avevano emarginato e reso quasi invisibili i “figli” che tentavano di percorrere strade “altre” in totale autonomia dalla generazione adulta, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta i giovani respinsero per la prima volta in modo esplicito e collettivo la volontà di tutela adulta, denunciando l’inconsistenza delle sue pretese.
Giachetti, però, ci ricorda che «una cultura giovanile» – laddove con tale espressione si intende alludere sia alla totalità dei comportamenti di uno specifico gruppo sociale sia alla concreta circolazione di alcuni specifici prodotti della «cultura di massa», soprattutto musicali e cinematografici – aveva iniziato a diffondersi sin dagli anni Cinquanta. Una «cultura giovanile» che si diffuse anche grazie all’emergere di stili e temi nuovi in alcuni settori (inizialmente marginali) della produzione artistica e letteraria d’avanguardia, parte, cioè, della «cultura» nel senso più tradizionale del termine. Negli anni ’60 la divergenza tra le due generazioni, quella dei “padri” e quella dei “figli”, assunse le dimensioni di un grave conflitto tra due diverse culture, conflitto in cui si fronteggiarono minacciosamente due concezioni opposte della società, del mondo e dell’uomo. I giovani stavano cambiando e in questo loro cambiamento si registravano una netta presa di distanza da quelli che erano sentiti come limiti e strettezze imposti dalla società adulta e un esplicito rifiuto dei valori espressi dai padri. Stava crescendo, secondo Carlo Risè, una generazione apparentemente indifferente. «Sono diversi» scriveva Risè su “L’Espresso” «dai teddy boys, diversi da coloro che passarono la loro adolescenza in montagna a fare la Resistenza o a Salò a combatterla» (C. Risè, I trentenni al confino, in “L’Espresso”, 30 agosto 1964). Ed era vero. Questi giovani «apparentemente indifferenti» e «senza passato» erano diversi dai giovani dell’immediato dopoguerra che, guidati dall’etica del lavoro, per la maggior parte incardinati nei partiti tradizionali, avevano contribuito alla ricostruzione dell’Italia repubblicana. Tra il 1966 e la fine del decennio, la cultura giovanile diede l’assalto a tutte le distinzioni e le gerarchie che avevano definito il suo ruolo: l’obiettivo non era semplicemente spodestare gli adulti e occupare i posti dei “vecchi”, si trattava di trasformare radicalmente e collettivamente la società. Iniziarono a circolare i temi che negli anni precedenti la controcultura aveva elaborato tenendosi al di fuori del grande mercato culturale, o in opposizione ad esso: le filosofie orientali, la libertà sessuale, le sostanze psicotrope, l’esodo verso le comunità alternative, la diffusione di riti collettivi (concerti musicali trasformati in eventi collettivi, happening ed appuntamenti teatrali che si trasformarono in manifestazioni politiche). Alcune delle istanze avanzate da questa cultura “altra” e mutuate dalla poesia e dalla prosa della beat generation americana quali ad esempio l’antiautoritarismo, il pacifismo, il desiderio e la ricerca di spazi alternativi di socialità, la critica all’istituzione familiare, furono accolte dal movimento del ’68 ma ridefinite, rielaborate, espresse in un linguaggio consono all’antagonismo di classe.
La generazione che arrivò al ’68, quindi, era una generazione già costituita come soggetto collettivo. Essa era la risultante “dialettica” dell’incrocio di due tensioni: l’affermazione di nuovi stili di vita e la condivisione di atteggiamenti verso la realtà sociale. Da quel momento in poi i giovani iniziarono ad autorappresentarsi facendosi artefici della propria soggettività, rivendicando il diritto di produrre in prima persona la propria cultura e costituendosi in una “generazione politica” che finì per incontrarsi con esperienze militanti e teoriche minoritarie che in parte erano già presenti alla sinistra dei partiti tradizionali del movimento operaio dando vita alla cosiddetta “nuova sinistra” e ad un rinnovato impegno politico ed ideologico in Italia e non solo.
Il ’68, infatti, fu come ci ricorda Giachetti, un evento di portata internazionale (pp. 17-19): si verificarono a livello planetario simultanei fatti di cronaca diversi nei particolari, lontani nello spazio, apparentemente difformi l’uno dall’altro. La musica, la beat generation, la circolazione dei corpi e delle idee unirono come mai era accaduto in passato il globo: il riferimento non erano più i confini nazionali ma la dimensione mondiale della protesta. Molti dei giovani che in quegli anni furono “nel movimento” si impegnarono per migliorare le condizioni di vita dei quartieri delle grandi città del nord, convinti di poter cambiare il mondo, lottarono con entusiasmo e con sincera passione per ottenere diritti e uguali possibilità, con lo sguardo rivolto verso orizzonti lontani, fecero la loro “rivoluzione” partendo dalle case, dalle scuole e dalle parrocchie sempre attenti a ciò che accadeva a migliaia di chilometri dal pianeta Italia. Quella della seconda metà degli anni Sessanta fu una generazione che non si risparmiò: parafrasando Che Guevara – «ogni vero uomo deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato sulla guancia di un altro uomo» – quella del ’68 fu, pur se tra mille contraddizioni e distinguo, forse la prima generazione che sentì sulla propria pelle la responsabilità per tutto ciò che accadeva “fuori”, a Città del Messico come a Praga, in Belice come in Vietnam o a Los Angeles.
‘Un sessantotto e tre conflitti’ si conclude con un interessante capitolo dedicato alla Nuova Sinistra. Nei libri celebrativo-nostalgici di cui abbiamo parlato poc’anzi e che spuntano come funghi durante gli anniversari, di solito mancano quasi del tutto riflessioni complessive sui gruppi, sulla loro nascita, sui loro sviluppi e sulla loro fine quasi che essi fossero nati dal nulla, parentesi di crociana memoria dovuta ad un impazzimento momentaneo di un’intera generazione nata buona e bella e diventata con il passare del tempo sporca, brutta e cattiva.
Compito dello storico dovrebbe essere distinguere, declinare, analizzare con il dovuto distacco empatico (sine ira et studio) i fatti presi in esame, contestualizzare i fenomeni studiati e Giachetti adempie a questo compito distinguendo, declinando, analizzando il passaggio dal movimento ai gruppi, seguendo la formazione dei dirigenti, cercando di rintracciarne le componenti politiche e culturali utili a comprendere e a narrare, per dirla con Hannah Arendt, fatti ed eventi ancora oggi troppo poco studiati ed analizzati.