(Cuneiform/Ird 2007)
Un disco-tributo ad Albert Ayler è già di per sé un evento degno di nota. Questo cd edito per la Cuneiform abbraccia per di più il periodo forse più ostico e meno abusato del grande sassofonista di Cleveland, ovvero gli ultimi anni, quelli in cui Ayler aveva per un attimo indirizzato la sua profonda ricerca verso lidi al confine tra jazz e rock, nell’indifferenza e nello scetticismo (per non dire disprezzo) generali. Il basso elettrico di Bill Folwell, la chitarra elettrica di Henry Vestine e la voce soul di Mary Parks, uniti ad un’attitudine ritmica decisamente più marcata, furono i marchi di fabbrica di questa breve e repentina virata, che rappresentò un ben assestato pugno nello stomaco anche dei più accaniti sostenitori di Albert.
Qui rappresentati sono gli ultimi due album in studio di Ayler, ‘New Grass’ (Impulse!, 1968), e ‘Music Is The Healing Force Of The Universe’ (Impulse!, 1969), con un brano, Universal Indians, in origine pubblicato su ‘Love Cry’ (Impulse! 1968), immediatamente precedente la svolta. A proposito di quest’ultimo brano, esso è proposto qui in medley con ‘Japan’, un misterioso e bellissimo tema (qui accarezzato dai tenui gorgheggi di Aurora Josephson), presente anche in una versione del 1967 nel monumentale cofanetto ‘Holy Ghost’ (Revenant 2004) in identico medley, ed accreditato come melodia tradizionale giapponese. L’enigma è che nello stesso anno, Pharoah Sanders dava alle stampe il suo capolavoro ‘Tauhid’ (Impulse! 1967), dove Japan è pure presente, ma accreditato come composizione di Sanders. Qui il pezzo è attribuito ad Ayler: insomma, di chi è Japan? Un piccolo busillis ad accomunare due giganti del Free Jazz.
Gli autori di questo lavoro sono musicisti di razza: Vinny Golia (ance), Aurora Josephson (voce), Henry Kaiser (chitarra), Mike Keneally (piano, chitarra, voce), Joe Morris (chitarra, basso), Damon Smith (basso), Weasel Walter (batteria). Golia dimostra di aver bene metabolizzato ed assimilato la lezione di Ayler, coi suoi fraseggi concitati e i tipici fischi d’ancia che ne caratterizzavano l’azione strumentale/improvvisativa, la bianca Josephson ha una bella voce, dal timbro decisamente più flautato rispetto alla nera Mary Parks che interpretò le versioni originali, più salmodiante e sofferta; le chitarre sono forse un po’ troppo spinte e distorte, con un effetto talvolta tendente al noise che ci appare estraneo, per motivi cronologici, alla sensibilità estetica di Ayler. Ma dal momento che un tributo vuole e deve essere un tributo e non una pedissequa copia, licenziamo questo disco con l’impressione sostanzialmente positiva di un esperimento coraggioso e riuscito, nato con fuoco e passione e realizzato con notevole sapienza esecutiva. Avrebbe approvato Albert? Chissà. Forse sì, anche se per lui stesso questa insolita svolta fu breve (il suo canto del cigno, le meravigliose ‘Nuits de la Fondation Maeght’ del 1970, lo videro tornare ad un linguaggio più canonico e ayleriano). Poi una mano omicida e l’East River lo soffocarono per sempre.
Voto: 6
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Autore: belgravius@inwind.it