(Rough Trade 2008)
Il solito, iperprolifico Adam Green. Giunto al suo quarto disco solista (a cui va aggiunto il fantastico omonimo esordio a nome Moldy Peaches in compagnia di Kimya Dawson) in sei anni, ci regala l’ennesima collection di venti brani, come se il nostro fosse biologicamente incapace di pubblicare un CD con una dozzina o poco più di canzoni.
Analogamente alle tre uscite precedenti, la varietà è il tratto distintivo del lavoro: se il primo capitolo della sua avventura solista, “Friends Of Mine”, era caratterizzato da una certa omogeneità (tutti i pezzi erano arrangiati per chitarra, voce ed archi) che alla lunga, però, lo rendeva noiosetto, i successivi “Gemstones” (il suo capolavoro), “Jacket Full Of Ranger” e questo “Sixes & Sevens” sono caratterizzati da una notevole diversità di spunti.
Il problema di questo eclettismo, però, è che rischia di scivolare Green nell’incoerenza stilistica. In questo album, ad esempio, si salta con disinvoltura da episodi tropicali (Tropical Island) a blues/gospel (Cannot Get Sicker), da esperimenti rap (That Sounds Like A Pony, contraddistinta da una batteria marziale e da improvvisi inserti di violino) a fiati r’n’b (Morning After Mindnight), da pezzi dall’andamento noir (You Get So Lucky) a sbrigliate fantasie circensi (Stiky Ricky).
Nel mezzo, le solite ballate greeniane, fatte di chitarre country/folk, orchestrazioni ed incedere indolente (ad esempio, Drowning Head First), interpretate con la solita (splendida) voce da crooner consumato.
Fosse stato un tantino più omogeneo (e più corto: venti canzoni, sebbene mai superiori per lunghezza ai tre minuti, sono sempre una fatica per l’ascolto), questo disco sarebbe stato da quattro stelle. Così non è, ed allora mezzo voto in meno per il menestrello di Bedford, New York, con la speranza che l’età (il nostro ha soli 27 anni) gli porti un po’ di senso della misura.
Voto: 7
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