Di Marco Loprete
Quando si parla del cinema di Ingmar Bergman, il titolo che viene fuori più spesso è sicuramente “Il posto della fragole” (“Smultronstället”, 1957). Si tratta forse dell’opera più famosa del grande regista svedese, che ha ricevuto un vasto consenso critico (vinse, tra le altre cose, l’Orso d’oro a Berlino e il Premio della critica a Venezia), e che più di altre si è impressa nell’immaginario collettivo. Nato in un periodo di forte impegno teatrale da parte del regista (tra il ’57 ed il ’58 Bergman mise in scena, tra una tournée in Gran Bretagna e un soggiorno a Parigi, “Peer Gynt” di Ibsen, “Il misantropo” di Molière, “Gente di Varmland” di Dahlgren e “Urfaust” di Goethe), fu forse il film al quale il grande maestro si dedicò con maggiore impegno, tanto che alla fine delle riprese dovette ricoverarsi per un periodo a causa di un forte esaurimento nervoso.
A ripercorrere la vicenda del professor Isak Borg, batteriologo di fama, che, in occasione del viaggio verso Stoccolma per il suo giubileo professionale, ha l’occasione di tracciare un bilancio della sua vita, ci pensa Alberto Scandola, tra le altre cose docente di Storia e critica del cinema presso l’Università di Verona. L’autore ci prende per mano e ci guida con perizia e lucidità tra le peculiarità di questo film, certo uno dei più ricchi mai diretti da Bergman. «Non ci interessa – scrive nell’introduzione – verificare la familiarità di questo film con le “alte sfere del mito”, quando esplorarne la struttura al fine di delucidare, nei limiti dell’analisi filmica, l’essenza di quell’armonia tra forma e contenuto che innegabilmente pervade la composizione». Obbiettivo indubbiamente raggiunto: “Ingmar Bergman. Il volto delle fragole” è una guida più che utile per addentrarsi senza perdersi in quel meraviglioso e proustiano universo che è il film del grande maestro svedese.
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