Di Sara Marilungo
Da carnefice, figlio delle tenebre, simbolo per antonomasia di una malvagità connaturata, a vittima, paladino dell’emarginazione sociale. La figura del vampiro nel cinema da sempre ha ricoperto un stereotipo, una visione del mondo. Il vampiro è li per porci la domanda sulla natura stessa del male. Anche in questo film, per la regia di Tomas Alfredson e tratto dal romanzo di John Ajvide Lindqvist che ne ha ideato la sceneggiatura, i cliché ricorrono tutti, le tenebre, il morto vivente, l’età che non passa, l’autocombustione alla luce del sole, la necessità di sangue e morte per la propria sopravvivenza.
Il tutto calato nella dimensione fredda e quotidiana di una Svezia ricoperta di neve, che rallenta i movimenti lasciando poco spazio a poche inevitabili scene di tensione adrenalinica, per soffermarsi sullo sguardo intimistico e per di più innocente della tenera storia di due ragazzi di 12 anni. Il mito si cala letteralmente nella storia, quella quotidiana, e lascia lo spettatore ad interrogarsi su una condizione di irrimediabile e tragica emarginazione. La storia del “vampiro” passa in secondo piano, come una malattia incurabile che turba la freschezza dell’innocenza e rende la piccola protagonista un personaggio eternamente alla soglia fra la purezza dell’infanzia e la consapevolezza della maturità, fatalmente associata al riconoscimento dell’inevitabilità del male. Ma il film, delicato e soave nei quadri immobili e nei dialoghi leggeri, sfugge alla visione nichilistica di Abel Ferrara, o allo stereotipo del vampiro bohemien ed aristocratico di Neil Jordan, o peggio ancora all’adolescente bello e misterioso del più recente ‘Twilight’. Lo sguardo di Eli, la giovane protagonista, su cui il regista si sofferma con frequenza, tradisce la totale assenza di malizia o malvagità, relegata ad una condizione animalesca, di dissociazione indotta da un’alterazione di coscienza. La sua storia di esclusione si intreccia con quella di Oskar, nel suo caso vittima dei maltrattamenti da parte dei compagni di scuola. I due personaggi si svelano allo spettatore con lentezza e senza clamori, con incontri rarefatti, parole semplici ed emozioni delicate e pulite, intrecciandosi alla storia di strani omicidi perfettamente attribuibili ad un misterioso serial killer delle nevi. La rosa di personaggi che li circondano si compone di morbide pennellate che lasciano i contorni sfocati, conferendo umanità. E che incontrano una sorte inaspettata, come la donna nel letto d’ospedale, o come il misterioso “mentore” della piccola Eli, personaggio sul quale lo spettatore curioso tornerà a riflettere con sorpresa nella scena finale (è forse il destino di tutti coloro che la incontrano e che la ameranno, lei, per sempre dodicenne?)
Solo poche scene horror perfettamente girate a regola d’arte ricordano allo spettatore la natura maledetta di un essere costretto ad uccidere. E distante risuona l’eco di un’innocenza che, per motivi reali e in luoghi molto lontani nel mondo, con la coscienza alterata non da un “addiction” al sangue ma a sostanze ben diverse, allo stesso modo è costretta ad uccidere per sopravvivere.