(Mercury 2008)
Non sempre le reunion portano bene e sortiscono effetti positivi: prendete i Verve o, peggio, i Queen e gli AC/DC. Ci sono casi, tuttavia, il cui l’antica scintilla scocca ancora e la magia si compie. E’ il caso di “Third” dei Portishead, band tra le più importanti degli ultimi vent’anni, tra le massime esponenti di quel movimento musicale, il trip-hop che, con la sua oscura ed ipnotica miscela di soul, dub, jazz ed elettronica, ha visto il suo apice nella metà degli anni novanta, grazie anche all’attività di gruppi quali Massive Attack e musicisti come Tricky. “Third”, terzo disco della formazione di Bristol, è infatti assolutamente all’altezza delle loro due precedenti pubblicazioni, il fondamentale “Dummy” del 1994 ed il successivo omonimo LP edito nel 1997.
Ad ascoltare le dodici tracce che compongono il lavoro sembra che il tempo non sia quasi passato per il polistrumentista Geoff Barrow e la vocalist Beth Gibbons, e che l’alchimia tra i due sia rimasta assolutamente intatta. Certo, rispetto ai lavori precedenti qualcosina è cambiato. Affiorano qua e là un maggiore attenzione all’impianto ritmico ed una vena più rumorista, ma il sound è sempre quello, cupo ed avvolgente, thrilling e romantico, capace di mandare l’ascoltatore in trance.
L’opera si apre magnificamente con Silence, con le sue pulsazioni accelerate, le orchestrazioni sinuose e l’interpretazione vocale sofferta. Si procede con la lenta marcia spettrale di Hunter, animata di tanto in tanto da qualche fremito elettronico. Tribalismi percussionistici e rintocchi di chitarra caratterizzano Nylon Smile, mentre la successiva The Rip parte con un arpeggio acustico di ascendenza folk per poi cedere ad un bel crescendo ritmico-sonoro.
Plastic alterna passaggi in cui la voce della Gibbons è accompagnata dal solo organo ad altri in cui essa si libra al di sopra di un muro di batteria, elettronica e chitarre manipolate. Ritmica serrata e schitarrate robuste per l’ossessiva We Carry On, con la tensione subito smorzata dal minuto e trentacinque di Deep Water, brano dal mood jazzato arrangiato per chitarra acustica e voce ed impreziosito da cori neri anni ’20.
La successiva Machine Gun è tra i pezzi più interessanti della raccolta. Il brano è infatti giocato sul contrasto tra beat schiacciatissimi e rumorismi elettronici e la soavità della voce della Gibbons; sul finale, in questa scheletrica tessitura ritmico-armonica, si insinua un sinth dal timbro assai penetrante. Small (il pezzo più lungo dell’LP, con i suoi quasi sette minuti di durata) è una litania in ¾ in cui si alternano arpeggi, sinth spettrali e orrende distorsioni.
Magic Doors si basa su un andamento ritmico spezzato; gli interventi del piano nel ritornello suonano incredibilmente caldi e contrastano con le stilettate noise presenti nella seconda metà del pezzo. Threads, con il suo crescendo emotivo-sonoro chiude egregiamente il disco, uno tra i migliori dell’anno appena trascorso.
Voto: 9
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