(Death Paradise 2008)
Ensslin è il progetto di Vega, co-fondatrice
di Plastic Violence.
Nel 2002 il primo assaggio della sua
tossica arte solista (su Death Paradise), poi, l’abbandono di
P.V. e le uscite con Abbasloth e Nightgoat.
Ora
Ensslin, di nuovo in solitaria, ci spiaccica ben bene sulle pareti
linde e pinte della nostra stanzetta, con questo pregevole, furioso
“Holocaust In Heaven”.
Otto tracce, veloci,
intossicate, malevole e mozzafiato.
Dritto alla giugulare
l’assalto, con i fumi circostanti che ci annebbiano il
cervello.
L’iniziale marzialità mutante della title track,
le escandescenze nevrotiche di Happiness Is A Warm Cunt, See
You In Disneyland, e Ritual Satanic Abuse, rappresentano
al meglio l’aspetto frontale del lavoro.
Snodi ritmici inceppati,
in bilico fra furia elettronica stile mammouth (Godflesh?
Treponem Pal?) ed esoteriche prelibatezze abilmente celate
nelle maglie del suono.
Ma l’interesse vero lo suscitano i brani
dove l’impatto lascia spazio alla vibrazione metallica.
8 Hours
Of 24, 1991, My Animal Totem e How Can I Tell
You.
Che, senza abbandonare l’originario spirito stritolante,
si prestano a soluzioni maggiormente articolate.
Emerge il
bagaglio elettronico/noise, che si emulsiona con una serie di vocals
prossimi alla disperazione rabbiosa di “Spears Into Hooks”
di Meira Asher.
La formula in questo caso si complica.
Si
aggiungono robuste sezioni dark ambient, una coltre di caos
elettronico si alza come polvere ad ogni passo (nubi digitali in
perenne collisione, il tuono un indistinto sibilo continuo…), ed
una cover conclusiva di Cat Stevens, che vien voglia di
registrare ed inviare all’autore (immaginar la faccia che farebbe, è
praticamente impossibile).
E a questo punto, dire Coil non
è come sparare in una metropolitana affollata.
Guardo una
foto di Vega sul web, lei sorridente, sullo sfondo una foresta,
l’immagine è sgranata, potrebbe esser adesso, come vecchia di
anni.
Sorride, non troppo, il tramonto sbadiglia, vien voglia di
andarsene, di chiamarla, dirle, “Vieni via
andiamocene”.
Vien voglia di non svilupparle quelle
foto.
Si pensa solo al rifugio offerto dal bar aperto, intravisto
in paese all’andata.
Cercando di eliminare quella sensazione
sgradevole di fondo.
Irrequieto, la chiamo, chiamo ancora, lei
continua a sorridere non troppo.
Poi si volta decisa, ed entra
nel bosco.
La osservo scomparire.
Dura qualche secondo, qualche
altro lo spendo ad osservare la vegetazione che non esprime
interesse all’evento.
La lascio andare, sapevo sarebbe finita
cosi.
Non la seguirò.
La sua voce, immagino mi giungerà
ugualmente.
Anche nel più profondo angolo di quel bar tanto agognato.
Voto: 8
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