Di Diego Giachetti
Recuperare una memoria condivisa, come il buonismo parolaio vorrebbe, non è cosa facile. Ciò che nella storia italiana si è affrontato dividendosi, separandosi, non è poi facilmente ricucibile in un solo cappotto adatto a tutti. La memoria condivisa può darsi solo se si riconosce che al momento ci furono fatti ed eventi che divisero e che furono affrontati, trattati, interpretati in modo diverso. Similmente alla polemica storico-politica che emerge quando si parla di fascismo e di antifascismo, partigiani, tedeschi, brigate nere e guerra civile, anche gli anni settanta, in particolare, non sfuggono a questa difficoltà di pacificare la storia, di renderla opaca e quindi mediamente condivisibile da tutti i punti di vista.
Aprendo l’album degli anni Settanta credo innanzi tutto si abbia il diritto-dovere di difendersi dalla montagna di memorialistica, cartacea e cinematografica, che ci sommerge spettacolarizzando a dismisura eventi drammatici come il terrorismo rosso e nero e il rapimento Moro. Quest’ultimo fatto, certo dirimente, importante, crudele, ha rappresentato però, nell’ambito dei tentativi di ricognizione storica di quegli anni, un potente buco nero che tutto assorbe, inghiotte, riducendo a sé tutta la varietà e la quantità del resto. Un pluralismo di “vite”, di soggettività, di culture e pratiche politiche, di movimenti sociali e di intensa partecipazione democratica da parte di una nuova generazione, tipica di quel decennio, è stato così sepolto e sigillato nella gelida e perentoria definizione di “anni di piombo”.
E’ attorno a questa drammatica, ma anche labile definizione, che si cerca di costruire un senso comune, una memoria condivisa rispetto a quegli eventi. Manca del tutto, in quest’operazione, un presupposto di fondo perché tale possa essere, come scrive Giovanni De Luna nell’introduzione, e cioè un giustizia che renda credibile il ruolo delle istituzioni, uno Stato legittimato dalla verità, a cominciare da quella sui “caduti” raccontati in questo libro. Dalle loro brevi biografie emerge l’immagine di un’Italia attraversata da una stagione di movimenti, di impegno civile, politico e sociale, di partecipazione diretta alla democrazia. Minibiografie esemplari dunque, e rappresentative di protagonisti di quel decennio che ci rimisero la “pelle”. Si tratta di Giuseppe Pinelli, Franco Serantini, Mario Lupo, Roberto Franceschi, Tonino Miccichè, Livia, Giulietta, Clementina e Alberto (morti a causa della bomba esplosa in Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974), Piero Bruno, Francesco Lorusso, Walter Rossi, Lorenzo Iannucci, Fausto Tinelli e tanti altri ancora che sono solo elencati nelle pagine finali del testo.
Di molti di questi morti ammazzati non sappiamo chi li abbia uccisi. Pinelli morì, secondo la sentenza, a causa di “un malore attivo”, ottimo fraseggio da azzeccagarbugli. Serantini, Franceschi e Bruno furono uccisi dalle forze dell’ordine (ma non si sanno i nomi dei responsabili) altri da una guardia giurata (Miccichè) o dai fascisti. La violenza, legittimata dallo Stato, non aveva e non ha colpevoli, né responsabilità nominali. Idem per le stragi che devastarono l’Italia. Quella forma di violenza investì gli anni Settanta e favorì la nascita di una cultura del sospetto e della diffidenza verso lo Stato e le istituzioni che furono delegittimati. I movimenti sociali e politici, che crescevano impetuosi e mossi da forte entusiasmo, incontrarono la violenza nella forma consueta della repressione e anche in quel surplus di violenza subdola rappresentata da un uso “deviato” degli apparati repressivi.
Ripercorrere la vita di questi giovani significa scoprire un mondo più vasto del solo impegno politico, che pure ci fu in misura che oggi appare abnorme e sproporzionato rispetto al resto. Emerge una vita intensa, multiforme, che pulsa e chiede appagamento, anche quando si manifesta all’ombra del “militante”. Libertà, eguaglianza, amicizia e solidarietà, erano i valori di fondo che permeavano quelle persone e da essi veniva la spinta alla politica. Una politica intesa quale strumento per cambiare il mondo, qui ed ora, non per accedere a carriere, non come professione permanente. Questo era loro chiaro. Una politica che non si ritagliava una spazio separato dal resto della vita dell’individuo, ma era strettamente intrecciata con altri sentimenti, legami, emozioni: l’amicizia, l’amore, il senso della collettività, il divertimento, lo stare assieme.
Mini biografie che ben rappresentano la personalità ideal-tipica del militante di “estrema sinistra” degli anni Settanta, così diverso dal rivoluzionario di professione forgiata dai manuali della Terza Internazionale; imparagonabile con quello, come imparagonabile è il confronto con quanti (pochi) fecero “il salto” nella lotta armata, sposando una dimensione dell’operare e del vivere, “clandestina” e nascosta, separandosi dalla multidimensionalità dell’agire e del vivere nella tensione perenne del movimento sociale.
Link: Roma, Manifesto Libri, 2008