(Milk Pie 2009)
Dalle ceneri di uno dei gruppi più sottovalutati della scena underground di Glasgow (almeno così dicono), gli Urusei Yatsura, i Projekt A – Ko (entrambi i nomi delle due band tradiscono la passione dei membri per i manga giapponesi) se ne escono con un disco gracidante, distorto ma al contempo intrinsecamente pop: noise, shoegaze e post – punk sono inseriti nella forma canzone tipica del pop alternativo, giungendo a risultati variegati, che spaziano dai Sonic Youth ai Sebadoh, dai Pavement più sporchi ai My Bloody Valentine. Melodie dissonanti e graffianti che fondono ferocia e delicatezza senza soluzione di continuità, rimandando a una tradizione musicale forse più newyorchese che scozzese, ma tant’è, nell’epoca del villaggio globale di McLuhan.
L’ora scarsa di musica dell’album si apre col lento crescendo di Hey Palooka!, che dopo un minuto e mezzo di sfregolii da sottobosco industriale si schiude in tutta la sua carica in bilico tra pop – rock tradizionale e noise furibondo degno di Moore e soci. Nothing Works Twice sembra uscire dalle tane lo – fi dei Pavement di “Slanted And Enchanted” ma sempre sporcato da dissonanze energiche che spostano il tutto verso lidi shoegaze. Supertriste Duxelle parte su ritmi punteggianti per poi adagiarsi su un alt – rock infangato ma più dimesso. Here Comes New Challenger! e Xavier si spostano con più forza verso l’alt – rock, come se J Mascis saltellasse per le lande scozzesi a braccetto con Kevin Shields, anche se la seconda si immerge nella seconda parte in un bagno distorto di feedback furenti. Molten Hearts ripesca la spensieratezza di Stephen Malkmus ma la piega a un contesto più sfrigolante. Scintilla sorprende, creando una pausa sospensoria a metà disco: il suo ritmo al ralenti e la soffusa melodia porta ancora al Malkmus, stavolta quello più oscuro della seconda parte della sua carriera. Ichiro On Third ritorna verso lo shoegaze – pop delle precedenti tracce, ma lo diluisce senza però fargli perdere potenza. Otaku Blue non cambia le carte in tavola, mentre Utopia, dopo una prima parte che segue i canoni precedentemente abbozzati, deborda in un tripudio di distorsioni e feedback allucinati. Black Empire sembrano i Sebadoh più elettrici. Il disco sembra scemare senza sussulti verso la fine, ma la title track spiazza tutti con una delicata melodia chitarra e voce accompagnata da un sottile violoncello e cori di bambini in lontananza; sembra di trovarci al cospetto di un’altra band, una sorta di Cinematic Orchestra (!). La chiusura è affidata a Don’t Listen To This Song, ancora in territori acustici, emozionante e appena sussurrata, mettendo il sigillo in maniera assolutamente inaspettata.
“Yoyodyne” è un disco che non si fa mancare niente, anche se alla lunga la tendenza è alla monotonia, anche se l’insospettabile coda acustica risolleva in parte l’ascolto, quantomeno calamitandolo. Comunque un lavoro che sintetizza le tendenze più originali del rock underground degli anni Novanta, risultando forse non così fresco e spiccatamente citazionista, ma terribilmente ben fatto e lontano dalle mode. Ottimo esordio che mi costringe ad andarmi ad informare sui “genitori” Urusei Yatsura!
Voto: 8
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