(Secretely Canadian 2009)
Antony Hagarty è un artista transgender di origine inglese (è nato a Chichester, West Sussex, nel 1971). Si trasferì insieme alla famiglia prima ad Amsterdam, poi, all’età di dieci anni, a San José, in California. Colpito dall’estetica di Boy George, dalla drag queen calva che compariva sulla copertina di “Torch” dei Soft Cell e dal personaggio della chanteuse interpretato da Isabella Rossellini nel lynchiano “Blue Velvet”, nel 1990 Hagarty partì alla volta di New York. Nell’East Side trovò l’ambiente ideale per dar sfogo alle proprie pulsioni artistiche. Assieme al collettivo di cabaret d’avanguardia Blacklips mise in scena una serie di performance volutamente provocatorie, ispirate tanto al grandguignol quanto all’ estetica transgender ma corretti da un’attitudine che guardava al punk, al musical e al teatro sperimentale (materia nella quale Antony conseguì, nello stesso periodo, una laurea).
Nel 1995 Antony, reclutato dagli appena sciolti Blacklips il batterista Todd Cohen ed affiancatogli i violinisti Joan Wasser e Maxim Moston, il bassista Jeff Langston, il pianista Jason Hart e la violoncellista Michele Schifferle, fondò i Johnsons. Il nome della formazione è ispirato alla figura del travestito Marsha P. Johnson, fondatore della casa di accoglienza per travestiti STAR, tragicamente annegato nel fiume Hudson.
Il primo, omonimo album, venne pubblicato per conto della Dutro di David Tibet nel 2000 e ristampato quattro anni più tardi dalla Secretly Canadian. Dopo la partecipazione a due dischi (“The Raven” e “Animal Serenade”) e ad un tour con Lou Reed, uno dei suoi più quotati ammiratori, e un apparizione nel film “Animal Factory” di Steve Buscemi, il nostro diede alle stampe il capolavoro “I’m A Bird Now” (2005). Le apparizioni in “Volta” di Bjork e nel documentario di Leonard Cohen “I’m Your Man” hanno preceduto l’uscita di quest’ultimo full-lenght, “The Crying Light”.
L’album, pur non essendo all’altezza del debutto e soprattutto di “I Am A Bird Now” è comunque un disco di buona fattura, che mostra la volontà del musicista di staccarsi (almeno in parte) dalle precedenti produzioni pop-gospel. I brani sono sempre caratterizzati da arrangiamenti semplici ed essenziali, basati prevalentemente sull’intreccio di piano ed orchestra e cantati nel solito registro lirico e sofferto, che mescola in un ibrido asessuato Nina Simone e Brian Ferry. Tuttavia, accanto a intense preghiere come Her Eyes Are Underneath The Ground, Another World e Daylight And The Sun, compare qualche novità: le inflessioni jazz di One Dove, la stranamente leggera (rispetto al suo repertorio) Kiss My Name, Aeon, il pezzo più gospel della raccolta, in cui il cantato si appoggia su un inconsueto arpeggio di chitarra elettrica e la preghiera a cappella di Dust And Water.
Manca qualcosa a “The Crying Light”: manca la struggente profondità che caratterizzava i primi due dischi. L’impressione è che si possa trattare di un album di transizione. La classe, comunque, è evidente.
Voto: 7
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